Elnacional.cat – Marc Pons
Tarragona, 6 de novembre de 2016
Il 7 novembre è una data con un significato speciale per la Catalogna. Soprattutto per i catalani del dipartimento francese dei Pirenei orientali, che la ricordano rivendicando la catalanità del territorio. Il 7 novembre 1659, le monarchie spagnola e francese firmarono un accordo di pace – il Trattato dei Pirenei – che mutilò la Catalogna: amputò i territori della vecchia contea di Rossiglione e gran parte della Cerdanya. La culla storica della nazione catalana. Nel 2016 questa affermazione aveva un motivo in più. La recente modifica della carta regionale francese – che comporta la scomparsa del nome Roussillon – ha risvegliato la coscienza degli indifferenti e li ha uniti ai settori tradizionalmente più rivendicativi. “Oui au Pays Catalan” (Sì al paese catalano) è il nuovo motto del catalanesimo settentrionale. La catalanità che si resiste a essere diluita nella nuova macroregione amministrativa che Parigi – con grazia e arbitrio – ha chiamato Occitania.
Perché la guerra?
Per capire le ragioni di quella pace – quella del 1659 – è necessario tornare indietro di qualche anno in più e vedere le cause della guerra. Era il 1618 (40 anni prima) e i problemi finanziari della monarchia ispanica – causati in gran parte dalla corruzione – anticipavano un cambio di ciclo. La fine della supremazia degli Asburgo ispanici. La prostrazione del dominio spagnolo in Europa. A Parigi, Londra e Stoccolma osservavano attentamente. E la guerra scoppiata – quella dei Trent’anni – non aveva altro scopo che stabilire una nuova leadership in Europa. I francesi, gli inglesi e gli svedesi si allearono per produrre legna da ardere dall’albero caduto. Successivamente si sarebbero imbarcati in altri mille conflitti. Ma questa è un’altra storia. La guerra dei Trent’anni segnò la fine della leadership spagnola. E anche l’inizio del declino spagnolo. Le sconfitte non arrivano mai da sole. E con quella della guerra di Successione – 50 anni dopo – si autenticava la discesa spagnola alla serie B delle potenze continentali.
La Guerra dei Trent’anni – senza dubbio la vera prima guerra mondiale – fu rivestita di conflitto religioso. In quegli anni era una scusa molto comune. Sorprendentemente, ancora lo è oggi. Si voleva vedere l’Europa con le sue colonie – che equivaleva a dire il mondo – divisa in due grandi blocchi: il cattolico e il protestante. La monarchia ispanica guidava il blocco cattolico. Con l’alleanza dell’Austria e il sostegno spirituale del Vaticano. Allora lo Stato Pontificio non era più quello di una volta. I pontefici avevano visto – in più occasioni – la Basilica di San Pietro trasformata in osteria nelle mani dei soldati francesi, e anche dei loro tradizionali alleati spagnoli. Nel cosiddetto blocco protestante, invece, non c’era una leadership chiara. L’Inghilterra e la Svezia avevano la priorità di un solo obiettivo: demolire l’edificio ispanico. E la Francia – che aveva decretato la libertà di culto per porre fine a un conflitto interno anch’esso perversamente abbigliato religione – seguiva una propria strada.
Cosa successe in quella guerra?
Inghilterra, Svezia e Sassonia – un principato tedesco indipendente che si era aggiunto alla festa dell’albero caduto – consolidarono le loro posizioni nelle proprie aree geografiche di influenza. E, inoltre, gli inglesi ottennero alcuni profitti commerciali. Ma la Francia fu la grande vincitrice del conflitto. Perché raggiunse il suo scopo fondamentale: spezzare la cintura dei domini ispanici che la costringevano. Gli Asburgo – gli ispanici – avevano dominato i territori che circondavano la Francia sulla terraferma: est, nord-est e nord. Una vera minaccia che non solo impediva l’espansione territoriale del gallo francese ma ne comprometteva l’autorità all’interno del pollaio. Come si era visto nelle “jacqueries” – una rivolta sociale e nazionale in Occitania di proporzioni straordinarie – che gli ispanici asburgici stimolarono per agitare il pollaio borbonico.
Re Luigi XIII, e più tardi Luigi XIV, il Re Sole, facevano lo stesso in Catalogna. Nel 1640 scoppiò la Rivoluzione dei Mietitori (segadors), una rivolta contro i signori e contro la Castiglia, che raggiunse il suo culmine con la proclamazione della Repubblica da parte del presidente della Generalitat catalana Pau Claris. La repubblica dei quaranta giorni (per farvi capire che la richiesta di indipendenza viene da lontano). In quel periodo i francesi erano intervenuti militarmente occupando la Catalogna con la scusa pellegrina di consolidare l’indipendenza catalana e con la preziosa collaborazione del partito filo-francese locale. La scusa perfetta per il conte-duca Olivares (ministro plenipotenziario del re spagnolo e primo assoluto campione su tutte le categorie di catalanofobia) per mandare rinforzi in prima linea sul fronte della Catalogna. Con questi elementi si spiega perché la guerra franco-ispanica abbia avuto un orizzonte temporale più lungo. La guerra dei Trent’anni si risolse nel 1648. E la pace franco-spagnola avrebbe richiesto altri undici anni.
E il Trattato?
Gli spagnoli, in ritirata da anni, accettarono condizioni umilianti. In parte, perché avevano perso sui campi di battaglia. La Francia stava iniziando la fase della sua pienezza e raggiungendo una leadership indiscutibile in Europa. Una superpotenza mondiale. E in parte, anche perché gli spagnoli condussero una gestione disastrosa rispetto alla perizia mostrata dai francesi. A priori, la disfatta diplomatica spagnola sarebbe collegata alla clamorosa sconfitta militare precedente. Ma i rapporti familiari -erano zio e nipote- tra Olivares (il primo catalanofobo) e Méndez de Haro e Coloma, capo della missione diplomatica spagnola, creano un’ombra di ragionevole sospetto. Méndez de Haro e Coloma, i negoziatori spagnoli, erano degli incapaci selezionati apposta per la loro incompetenza? o avevano semplicemente istruzioni concrete e concise di cedere alle rivendicazioni francesi sulla Catalogna? O entrambe le cose?
Né l’Asburgo ispanico – in qualità di conte di Barcellona e re d’Aragona – né Olivares perché non aveva alcun potere legittimo sui paesi della corona d’Aragona avevano il potere di negoziare la mutilazione della Catalogna. Le antiche contee di Rosselló e Cerdanya, che in precedenza avevano fatto parte del regno effimero di Maiorca, erano state riportate alla corona catalano-aragonese con un trattato – pienamente legittimo e in vigore all’epoca – che ne proibiva l’alienazione. Solo le istituzioni catalane – la Generalitat e la Junta de Braços (che veniva convocata in casi di emergenza) – avevano il potere di revocare quel trattato. E la pace dei Pirenei – la mutilazione della Catalogna – fu concordata alle spalle dei catalani. A tradimento. Una pace ancora più trascendente, che portò all’accordo matrimoniale tra un figlio del re francese e una figlia de lo spagnolo. Il virgulto di questo accordo sarebbe stato il primo Borbone spagnolo, che avrebbe raggiunto il trono di Madrid tre decenni dopo.
I limiti
Anche il nuovo confine tracciato tra i Borboni e gli Asburgo è, a dir poco, controverso. Le storiografie spagnole e francesi hanno insistito fino alla sazietà che volevano trasformare i Pirenei in un confine naturale. Una semplice osservazione della mappa lo nega categoricamente. La Cerdanya fu divisa proprio nel mezzo della pianura. I Pirenei la separano dalle contee del Conflent e il fiume Segre – che segna il rilievo della regione – non è orientato verso il Mediterraneo. Inoltre, i Pirenei separano la Navarra e la Biscaglia da Guipuzcoa. Se il frangiflutti della catena montuosa doveva segnare il limite preciso, l’Alta Cerdanya oggi sarebbe sotto l’amministrazione catalana e Guipúzcoa sarebbe sotto l’amministrazione francese. Un capitolo a parte merita il caso del paese di Llívia. Nel trattato dei Pirenei si diceva che tutti i paesi dell’Alta Cerdanya passassero all’amministrazione francese. Ma la categoria di città che allora vantava l’ha trasformata in una curiosa enclave catalana all’interno del territorio francese.
I Borboni francesi non rispettarono nessuna delle disposizioni aggiuntive del trattato. Le istituzioni catalane di Perpignano furono abolite l’anno successivo. E la lingua catalana fu messa fuori legge nel 1700, e specialmente perseguitata a patire dalla rivoluzione francese del 1789. Tuttavia, negli ultimi anni, i confini politici e culturali che hanno separano la Catalogna settentrionale e il Principato per più di tre secoli si sono via via diluiti. E la Catalogna settentrionale rivendica la sua catalanità guardando verso Barcellona, la sua capitale naturale. Più che verso Montpellier o Tolosa, la nuova capitale regionale imposta da Parigi. E rivendica il suo status regionale – di Paese catalano – che lo identifica di fronte al mondo per disporre di strumenti politici – anche con i limiti imposti dalla tradizione giacobina dello Stato francese – di collaborazione culturale, sociale ed economica con il Principato di Catalogna e con tutti gli altri Paesi Catalani (Catalogna, Valencia e Baleari).
* traduzione Àngels Fita – AncItalia
https://www.elnacional.cat/ca/opinio/marc-pons-tractat-pirineus-perpinya_119199_102.html