Barcellona al palo: cade?
Published on : 11 Settembre 2024 by Marianna Mancini
Per la prima volta in minoranza, gli indipendentisti catalani affrontano l’ennesima partita a scacchi con Sanchez che, con l’amnistia, ha riaperto e forse già chiuso il procés
«Se tu lo tiri per di qui / mentre io lo spingo verso là / vedrai che cade cade cade / e vivremo in libertà». Nel 1968 il maestro della Nova cançó catalana Lluís Llach scriveva L’Estaca; destinata a diventare un inno internazionale alla rivolta contro le tirannie e l’oppressione del potere, la canzona parla di un “palo” a cui sono tutti incatenati, ma che ciascuno può contribuire ad abbattere. È con la più rapsodica delle narrazioni che gli indipendentisti catalani, da che abbiamo memoria, rivendicano al mondo intero una storia di repressione, conquista, livellamento culturale e sfruttamento economico. Anche l’eroe più epico e valoroso, però, a un certo punto della storia vince, oppure è stato sconfitto. Delle due l’una, e oggi il procés catalano, per come è uscito dalle urne, rischia l’accanimento terapeutico.
L’11 settembre la Catalogna ha celebrato la Diada Nacional de Catalunya. La festa nazionale della comunità catalana ricorda la caduta di Barcellona, conquistata dai Borboni di Filippo V durante la guerra di secessione spagnola del 1714. La comunità si trova a commemorare la propria occupazione, perché una liberazione da festeggiare non l’ha vissuta mai. In quell’occasione, “torniamo sulle strade con l’unico progetto futuro di un Paese più giusto, politicamente e socialmente”, ci racconta Jaume Bardolet, responsabile per la coordinazione internazionale dell’ANC (Assemblea Nazionale catalana): «essere soggetti al Regno di Spagna è una minaccia strutturale per la sopravvivenza della Catalogna». L’ANC, organizzazione civile che ha guidato la lotta per l’indipendenza facendo da collante per le varie forze interne, oggi presieduta dallo stesso Llach, ha esortato i satelliti indipendentisti a tornare a sistema, concordando un programma condiviso al preciso scopo di “completare l’escalation della tensione” e promuovere “nuovi attacchi per rendere effettiva l’indipendenza”. L’agenda comprenderebbe, fra le altre cose, la creazione di un sistema giudiziario autonomo, una Carta della lingua catalana e una serie di mobilitazioni per denunciare il cosiddetto “saccheggio fiscale”, vero oggetto della contesa con Madrid. Peccato che i protagonisti di questa “Entesa per la República” solo teorizzata siano rimasti impigliati in una rete di strategismo politico, compromessi e persino ostacoli giudiziari, uno stagno che l’elettorato non ha mancato di punire. È quello che ci spiega anche Narcís Pallarès-Domènech, politologo e analista geopolitico catalano membro dell’Associació de Catalans a Roma, dove vive (gli italiani costituiscono la più grande comunità straniera di Barcellona): «i partiti hanno commesso l’errore di diffondere l’idea di una sorta di “indipendentismo magico”, secondo cui sarebbe stata sufficiente la sola volontà popolare espressa nel referendum del 2017 per far nascere un nuovo Stato in Europa».
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Dal 2010 al 2017, al grido di “tenim pressa”, (“abbiamo fretta”) i Partiti hanno schiacciato l’acceleratore, “anni trepidanti in cui hanno bruciato tappe, legislature e cicli” prosegue Pallarès-Domènech, senza però chiudere davvero il processo. Uno sforzo sovrumano che “ha generato fatica sociale e altre mobilitazioni”, oltre ad aumentare l’astensionismo di protesta, perché le promesse non si sono avverate e anzi “l’indipendentismo era ormai culminato nel resistenzialismo”. Oggi c’è un graduale ritorno alla realpolitik dei negoziati istituzionali. Ma non si tratta nemmeno di una novità assoluta. «La questione catalana è sempre stata il grande centro di gravità permanente della politica spagnola» spiega il politologo che ama citare Franco, («Battiato eh»), fornendo il proprio sostegno a maggioranze di diversi colori, pur di portare avanti il sogno di una Spagna federale. La svolta anticatalanista del Partito Popolare, portata avanti da José María Aznar prima e Mariano Rajoy poi, ha fatto saltare il banco aprendo la porta alla destra nazionalista e istituendo una politica di assedio permanente su tutti i fronti, dalla cultura alla lingua catalana. «Sono sempre stati più nocivi e numerosi i separatori dei separatisti» scherzava lo scrittore spagnolo Premio Nobel Camilo José Cela.
Ad ogni modo, di strada gli indipendentisti ne hanno fatta, dall’extraparlamentarismo con tendenze comuniste («una messa in scena che sembrava un mix fra Lotta Comunista e l’Armata Brancaleone», scherza Pallarès-Domènech) fino al ruolo di Partiti strutturati e politicamente rilevanti, ideologicamente trasversali e con un alto potenziale di coalizione e di intimidazione, per dirla con Giovanni Sartori, “quelli che un altro illustre politologo come Gianfranco Pasquino definirebbe ‘partiti che contano’”. Il tutto, posizionandosi attorno al tronco della socialdemocrazia e del liberalismo democratico. Insomma, Pallarès-Domènech non ha dubbi che “il procés e la sua equazione strategica di 10 anni fa sono finiti”, mentre l’indipendentismo catalano “come movimento politico di massa, trasversale, e socialmente rilevante, rimane”. Ce lo conferma anche Bardolet: «stiamo riscontrando un atteggiamento molto ricettivo, sia da parte delle organizzazioni della società civile che dei Partiti» a fare fronte comune, anche se “le difficoltà sono tradizionalmente derivate più dalla lotta per il potere che da questioni ideologiche o pragmatiche”. È così che dopo due mesi di intense trattative l’Esquerra Republicana de Catalunya (ERC, Partito indipendentista di sinistra) ha accettato un pre-accordo di governo con il Partito socialista locale di Salvador Illa (se Pedro Sanchez viene chiamato il premier dalle 9 vite ci sarà un motivo), strappando al Governo la promessa, finalmente, di un sistema tributario indipendente e gestito dall’Agenzia delle Entrate catalana destinato a sollevare non poche polemiche.
La gallina dalle uova d’oro – I catalani rappresentano il 16% della popolazione spagnola, mentre il PIL della Regione è il 18,9% di quello nazionale, anche grazie al primato nell’export e nell’attrattività per aziende e investimenti esteri. Secondo alcuni studi presentati dalla Generalitat, per ogni euro versato dalla Catalogna alla Spagna tornerebbero indietro in servizi 56 centesimi
Sulla coabitazione con i socialisti (in parte obbligata, perché lo scorso 12 maggio gli indipendentisti hanno perso per la prima volta la maggioranza) è critico anche Bardolet: «è la vecchia storia delle piccole concessioni per far dimenticare ciò che è essenziale, il diritto all’autodeterminazione del popolo catalano. Questo non aiuta affatto il processo, al contrario, sono manovre di distrazione che impediscono il riconoscimento del diritto dei catalani a decidere democraticamente del loro futuro». Al netto degli ultimi sviluppi, però, è stata senza dubbio la legge sull’amnistia a marcare un punto di svolta nella politica catalana. È forse questo uno dei meriti più importanti di Sanchez: affermare che il procés non è più (solo) una questione giuridica nelle mani di giudici e giustizieri, ma andrebbe invece re-inserito nei binari della politica e dei negoziati. Ce lo conferma anche Pallarès-Domènech, secondo cui Sanchez “ha avuto la necessità ma anche il coraggio di affrontare questa decisione” che gli ha messo contro la vecchia guardia del suo Partito oltre a un’ambigua Unione Europea, che potrebbe gettare la maschera in questa legislatura. Il prossimo obiettivo di Barcellona? Il riconoscimento del catalano come lingua ufficiale: che la lingua non sia mero medium di comunicazione, bensì strumento di coesione sociale, lo si era capito dopo il primo divieto. «Vedrai che cade cade cade / già comincia a vacillar».
Barcellona chiama Bruxelles
L’UE ha ammonito Madrid chiedendo spiegazioni su un’amnistia “oggetto di grandi controversie” e preoccupazioni. «L’UE ha avuto un atteggiamento ambivalente» conferma Bardolet che però si chiede: «cosa c’è di più democratico ed europeo che decidere votando, come chiedono i catalani?». Dopotutto “è pur sempre un club di Stati”, ma è anche “paladina dei diritti fondamentali dei suoi cittadini” come quello, appunto, all’autodeterminazione. In passato l’UE ha dimostrato un saldo spirito di autoconservazione, ma anche una buona dose di pragmatismo. Da che parte starà?