Il tempo del nazionalismo industriale
Miquel Vila – 02/04/2024
direttore esecutivo di Catalonia Global lnstitute (CGI). Analista e consulente, specialista in geoeconomia, Cina e regione Indo-Pacifica.
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Per più di un secolo, l’industria era stata uno dei pilastri dell’identità catalana. Il dinamismo economico catalano costituiva un fatto differenziale materialmente evidente che avvicinava la Catalogna all’Europa produttiva e la allontanava dalla Spagna burocratica. Anche se molti catalani sono ancora guidati dalla visione della Catalogna degli anni ’90 e dei primi anni 2000, la realtà è che l’economia catalana, per molti aspetti, non solo è rimasta indietro rispetto alla media europea, ma è addirittura rimasta indietro rispetto ad altri territori dello Stato.
Una parte di ciò può essere attribuita ad una tassazione ingiusta, ma sarebbe sbagliato credere che la negligenza delle élite politiche ed economiche catalane non abbia avuto la maggior parte della responsabilità del declino industriale del paese. In fin dei conti, gli ostacoli amministrativi, l’ampio carico fiscale che grava sull’attività economica catalana, la mancanza di politiche industriali ed energetiche efficaci e la scommessa sul settore del turismo sono il frutto di decisioni prese in Catalogna.
Negli ultimi quattro anni, il dibattito industriale in Europa è stato influenzato dalle difficoltà del settore automobilistico nella transizione verso l’auto elettrica, dai pericoli di dipendenza dai produttori cinesi, dallo shock logistico post-pandemia, da un’escalation inflazionistica globale, dalla guerra in Ucraina e dagli attacchi degli Houthi alle navi che attraversano il Mar Rosso, tra gli altri. Tutti questi problemi hanno avuto il loro impatto in Catalogna. Ma, mentre l’Occidente si chiede come sviluppare politiche di reindustrializzazione, il 12 maggio di quest’anno si tengono le elezioni per il Parlamento della Catalogna, anticipate frettolosamente dalla “caduta” dei bilanci regionali (non sono stati approvati dal parlamento catalano), che avevano come progetto economico di punta il macro-Hard Rock Casino.
Per quanto si tenti di mascherare, con un’espansione degli appalti pubblici e con la crescita economica legata all’importazione di manodopera straniera, il modello economico catalano fa acqua da tutte le parti. La perdita di forza industriale non significa solo la perdita del potere di innovare e influenzare segmenti strategici dell’economia globale, ma anche la distruzione di posti di lavoro qualificati e del potere ordinante dell’industria, che spesso infonde dosi di disciplina e armonia sociale superiori ai disadattamenti che patiscono le società post-industriali. L’impoverimento dei catalani contribuisce a offuscare parti essenziali della nostra identità e a ridurre la nostra capacità di iniziativa storica. Sebbene in passato l’industria catalana abbia avuto un ruolo predominante nelle preoccupazioni economiche del paese, oggi è un settore per lo più orfano di rappresentanza politica. Correggere il declino economico catalano attraverso la politica industriale non è solo una necessità, ma anche un’opportunità per ricostruire il nazionalismo catalano con coordinate che gli consentano di adattarsi alle sfide di un mondo post-liberale.
Il precedente storico
La politica industriale consiste nella promozione e nel coordinamento dell’attività economica di un Paese al fine di determinare un cambiamento nella sua struttura produttiva a favore del settore industriale o manifatturiero. L’industrializzazione non è mai stata un fenomeno casuale, ma il risultato di un’iniziativa collettiva con partecipazione e leadership politica. L’articolazione della politica industriale dipende dalle condizioni specifiche di ciascuna nazione, ma tutte le politiche industriali concordano sull’esistenza di una leadership politica e di una visione a lungo termine. Sebbene, come ogni approccio strategico, la politica industriale implichi la pianificazione, questa ha poco a che fare con la pianificazione centrale di stampo socialista. Nella maggior parte dei casi, la politica industriale è dedicata alla definizione di obiettivi generali e all’indirizzamento dei capitali e delle forze di mercato verso quei settori considerati fondamentali per gli interessi a lungo termine di un Paese. La politica industriale, quindi, promuove una visione di dove il Paese vuole andare per produrre una crescita sostenuta nel tempo, e non una semplice crescita rapida a breve termine.
Il ruolo dell’iniziativa politica nello sviluppo industriale è stato fondamentale fin dall’inizio del fenomeno. Come spiega Andrew Lambert, la creazione di un quadro giuridico per lo sviluppo della potenza marittima inglese, come risultato degli incentivi generati dalla competizione geopolitica con altre potenze rivali, fu fondamentale per lo sviluppo di una serie di istituzioni mercantili e finanziarie che avrebbero creato il contesto favorevole allo scoppio della rivoluzione industriale inglese. Grazie a questo fattore, le energie di alcuni pionieri e visionari industrialisti furono messe al servizio della sovranità inglese contro i suoi rivali geopolitici e, successivamente, per la strutturazione di un impero coloniale globale.
Anche nel caso catalano, dove il governo spagnolo guardava con una certa diffidenza il processo di industrializzazione, fu anch’esso il risultato di un’iniziativa collettiva. I leader di questo processo furono i gruppi degli industriali catalani, con il sostegno dei consigli comunali, delle camere di commercio e della società civile, che trasformarono l’industrializzazione in un’impresa nazionale. Parallelamente alla mobilitazione per l’avvio di politiche favorevoli da parte dello Stato centrale, si formò un’élite politica, economica e culturale che fece del processo di industrializzazione l’elemento centrale strutturante della società catalana, diventando un processo parallelo all’emergere di un nazionalismo moderno catalano e la prima spinta a competere con le élite castigliane per il controllo dello Stato spagnolo.
Oggi l’azione pubblica è necessaria perché lo sviluppo tecnologico e manifatturiero richiede ingenti risorse. È un investimento che impiega anni a offrire un ritorno, spesso con margini di profitto più ristretti rispetto ad altri investimenti. In questo senso, la politica industriale serve a rompere alcune inerzie pre-esistenti nell’attività economica di una società, che possono andare contro la promozione del settore manifatturiero.
Sebbene nel corso dei secoli XVIII e XIX i settori filo-industriali si confrontarono con i tradizionali poteri di matrice agraria, oggi il loro nemico è la tendenza alla terziarizzazione dell’economia, alla delocalizzazione, al predominio dell’economia delle piattaforme digitali, alla finanziarizzazione, all’eccessiva burocratizzazione e ai regolamenti imposti da stati in espansione, o ai quadri ideologici come ESG (Environment, Social and Governance, in inglese) che ostacolano l’attività produttiva industriale. In un modo o nell’altro, questi fenomeni si ritrovano anche nell’ambito catalano, sia per l’influenza del complesso immobiliare e turistico, sia per l’azione di settori nimbisti (la sindrome NIMBY designa l’atteggiamento delle persone che vogliono beneficiare dei vantaggi della moderna tecnologia, ma che rifiutano di subire nel loro ambiente i fastidi legati alle infrastrutture necessarie), contrari allo sviluppo di settori come le energie rinnovabili o l’energia nucleare nel nostro paese.
Geopolitica e industrializzazione
Lo sviluppo industriale è una questione di potere, e l’incentivo fondamentale per la promozione delle politiche industriali è stato quello di massimizzare la posizione di un paese nel terreno geopolitico. Una volta iniziato il processo di modernizzazione economica, i paesi industrializzati hanno prevalso su quelli non industrializzati. Mantenere una posizione di leadership nelle capacità tecnologiche e industriali è, dunque, un elemento indispensabile per garantire la sopravvivenza e la supremazia di una nazione.
La storia del XX secolo è la storia della maratona dei paesi in via di sviluppo per accedere ai vantaggi della modernità. Quelli che hanno fallito hanno spesso visto il loro futuro come popolo in discussione e alla mercé di potenze straniere. In Occidente, infatti, possiamo tracciare una linea diretta tra la perdita dell’urgenza di garantire il futuro industriale delle nostre società a causa della fine della minaccia sovietica e la divulgazione di idee che vedevano la necessità di mantenere un vantaggio nelle capacità produttive come una reliquia del passato. D’altro canto osserviamo come nel contesto asiatico, dove le rivalità geopolitiche non si sono esaurite con la fine della Guerra Fredda, queste idee non hanno mai avuto lo stesso grado di successo. Di conseguenza, queste élite politiche ed economiche nazionali non hanno mai abdicato al loro ruolo di garantire la buona salute del settore industriale nell’economia nel suo insieme.
In realtà, nell’Unione Europea e negli Stati Uniti, il mainstream era contrario all’idea di politica industriale. Questo errore di calcolo è ciò che ha permesso alla Cina di essere oggi la potenza industriale dominante praticamente in ogni catena di valore globale. Ma oggi tutti i leader occidentali, da Donald Trump a Joe Biden, passando per Emmanuel Macron o Giorgia Meloni, si sono impegnati a favore di un nazionalismo industriale che capisce che la mano invisibile del mercato ha bisogno della guida della mano visibile del potere pubblico per garantire che il mercato sia in grado di soddisfare le esigenze dell’interesse nazionale.
Tuttavia, al di là dei progressi retorici, in Occidente queste politiche di industrializzazione sono state piuttosto disperse e limitate. Ad esempio, si pone più enfasi sulle misure protezionistiche che su quelle pro-industrializzazione, anche se negli Stati Uniti assistiamo ad iniziative come il “Chips Act” o l’”Inflation Reduction Act”, che hanno incorporato fondi per lo sviluppo dell’industria dei semi-conduttori e del veicolo elettrico, tra gli altri. Tuttavia, queste scommesse non hanno in alcun modo scatenato una rivoluzione re-industrializzante. L’Occidente è ancora totalmente dipendente dalle catene di approvvigionamento legate ai paesi in via di sviluppo e, nonostante le strategie di “de-risking” o “de-coupling”, anche dalla Cina.
La geoeconomia delle catene di valore
Tuttavia, dove vediamo un cambiamento profondo è nell’idea che i settori industriali strategici e le catene di fornitura globali debbano essere guidati da criteri geo-economici. I criteri di efficienza ottimale, nella misura in cui non sono sicuri di mantenere la sicurezza economica di una nazione, così come le alleanze geopolitiche, hanno bisogno di incorporare anche una dimensione economica di maggiore integrazione. “Dove produci”, “cosa produci” e, soprattutto, “con chi produci” sono le domande chiave che collegano politica industriale e geopolitica nel XXI° secolo. La razionalità che deve darci risposte a queste domande è tanto politica quanto economica.
Di conseguenza, la politica industriale ha un focus nazionale, ma allo stesso tempo deve essere inquadrata in una strategia internazionale per pensare a come le aziende di un paese si inseriscono nelle diverse fasi della catena produttiva globale. Infatti, uno dei segni della transizione da un mondo unipolare a uno multipolare è la progressiva frammentazione e biforcazione delle catene di valore globali in vari blocchi geopolitici. Parallelamente, e a causa dei nuovi rischi nel trasporto marittimo, vediamo anche come queste catene di valore stiano cercando di accorciarsi il più possibile, avvicinandole ai centri di consumo.
Quando si pensa a come la Catalogna possa riposizionarsi in questo nuovo contesto, bisogna tenere presente che, in termini tecnologici e industriali, sono le grandi potenze ad avere il ruolo preminente, con catene di valore che saranno gradualmente sotto la loro guida. Le potenze globali cercano di diventare e rimanere leader tecnologici nel maggior numero possibile di settori. Allo stesso tempo, devono anche trovare nazioni alleate per delocalizzare quelle parti della catena produttiva che, a causa dei problemi demografici o dei costi, risultano meno redditizie da produrre direttamente.
Nazioni medie e piccole, dove possiamo includere un territorio come la Catalogna, aspirano a trovare settori specifici in cui potersi distinguere a livello globale, pur mantenendo una diversificazione minima delle capacità per affrontare le emergenze, e si interrogano su come massimizzare il loro vantaggio strategico attraverso l’integrazione nelle catene di valore globali guidate dalle principali potenze alleate. È anche fondamentale capire come possano bilanciare con successo il fatto di avere delle catene di valore globali biforcate nel proprio territorio, capaci di dare servizi a potenze opposte. In questo contesto, quelle nazioni che saranno in grado di integrarsi e trarre vantaggio dalle catene di valore guidate da diverse potenze, sono quelle che potranno massimizzare la propria sovranità, come sembra essere il caso dell’Ungheria, della Turchia, del Vietnam o, anche, della Corea del Sud.
L’industria catalana oggi
Per poter sviluppare una politica industriale catalana è fondamentale comprendere, innanzitutto, la situazione reale dell’industria catalana. Al di là del trionfalismo degli enti ufficiali o della pubblicità a pagamento che spesso troviamo in gran parte della stampa economica catalana, questo studio, elaborato dagli analisti e consulenti Marc Maynou e Arnau Valdovinos, mostra la salute precaria in cui si trova l’industria del nostro paese.
La crescita economica catalana è stata sostenuta soprattutto grazie ad alcuni rami del settore dei servizi con scarso valore aggiunto, legati ad attività che dipendono dall’aumento della pressione demografica e del flusso di visitatori e immigrati, come nel caso del settore immobiliare turistico, così come un aumento della spesa pubblica e la specializzazione di Barcellona nei servizi professionali digitali, come compiti amministrativi e di servizio al cliente. Sebbene all’inizio degli anni 2000 la Catalogna fosse vicina alla Germania, oggi il peso del settore è molto più in linea con la realtà spagnola e francese, con un aumento del peso del settore agroalimentare e un calo di settori strategici come l’industria metallurgica, meccanica e automobilistica, con casi importanti come la partenza di Nissan dal nostro territorio. Nonostante ciò, un fattore di differenziazione del tessuto industriale catalano è la forza del suo settore chimico e farmaceutico, dove la Catalogna continua a distinguersi nel suo contesto regionale.
Barcellona è diventata uno spazio ricevente d’investimenti per le start-up in Europa, accumulando 1,5 miliardi di euro negli ultimi anni, ma questo investimento spesso ha poca sinergia con il tessuto industriale catalano. Come spiegano Maynou e Valdovinos, ad eccezione del settore medico, la maggior parte degli investimenti è convogliata verso start-up con scarso valore industriale, come l’e-commerce o i servizi digitali. Infatti, rispetto all’Europa nel suo complesso, “meno del 15% degli investimenti nelle start-up catalane corrisponde a settori ad alta tecnologia (deeptech), percentuale che nel caso delle maggiori città dei Paesi Bassi e della Svizzera cresce fino a quasi 1/3 dell’investimento nel paese.” In altre parole, è di scarsa utilità essere un presunto hub di innovazione se questa conoscenza difficilmente può essere indirizzata verso le industrie locali.
Attualmente non sembrano esserci iniziative pubbliche per porre rimedio a questo problema. La cosa più vicina a una politica industriale del governo catalano (Generalitat) è il Patto Nazionale per l’Industria dove per il periodo 2022-2025 sono stati stanziati 2,817 miliardi di euro, potenzialmente ampliati a 3,270 con fondi europei, 470 milioni di prestiti, e suddivisi in 152 iniziative. Il documento presenta, però, un problema simile a quella già analizzata nell’articolo sulla strategia del piano MedCat 2030 che è trasversale a tutti i cosiddetti “piani strategici”. Questi piani mancano di visione, poiché presentano una molteplicità di obiettivi senza alcuna priorità chiara. Nella migliore delle ipotesi, il denaro investito in questi programmi serve a coprire lacune in alcuni settori; nel peggiore dei casi, serve a reindirizzare i fondi pubblici verso enti affiliati al governo, che contribuiranno poco alla re-industrializzazione della Catalogna.
La sfida neo-industriale catalana
Il declino dell’industria catalana ha comportato un maggiore impoverimento dei catalani, chiaramente visibile nella caduta del PIL pro capite in Catalogna, nell’erosione dei posti di lavoro qualificati nel settore manifatturiero e nel minor utilizzo del capitale intellettuale del paese come risultato della disconnessione tra gran parte di esso e il tessuto industriale catalano, ad eccezione dei settori farmaceutico, biotecnologico e chimico. La Catalogna si ritrova con la sfida di ribaltare questa situazione con una scommessa neo-industriale.
In questo contesto, la reindustrializzazione dell’economia catalana si trova con gli stessi ostacoli del resto delle società che hanno subito un processo di de-industrializzazione. C’è una differenza importante quando si tratta di fare politica industriale nei paesi giovani, con la loro società mobilitata, che stanno effettuando la transizione dalle economie tradizionali a quelle industriali e che godono ancora di una grande crescita demografica con una certa omogeneità sociale -il che significa che garantiscono una forza industriale solida-, rispetto alla politica industriale da fare nelle nazioni che hanno subito un processo di de-industrializzazione e di maggiore atomizzazione sociale. Oggi, le società sviluppate non devono solo affrontare le minacce esterne o le sfide tipiche della modernizzazione, ma anche la sostituzione della loro cultura industriale con una cultura digitale.
Questo non è un problema esclusivo della Catalogna, ma riguarda tutte le nazioni post-industriali, comprese quelle che stanno attualmente avviando la transizione verso una società di servizi e digitale, come nel caso della Cina. In effetti, le politiche culturali pro-industriali di Xi Jinping sono in gran parte motivate dal timore che la Cina si sviluppi seguendo lo stesso percorso delle società occidentali. Difficilmente progredirà una società con un sistema educativo che non promuova le idee di disciplina e di impegno necessarie ai lavori di natura industriale, dove la fantasia delle nuove generazioni è di arrivare a far parte dell’economia della creatività low-cost – influencer o streamer -, e dove gran parte delle risorse di investimento siano destinate all’economia delle piattaforme invece che ai profondi progressi tecnologici nel settore manifatturiero.
Una delle sfide della politica industriale risiede nel fatto che la promozione dell’economia dei servizi e digitale comporta la necessità di formare e attrarre una tipologia di forza lavoro e una struttura economica che ostacolano la crescita organica dell’industria. Sul fronte della formazione, siamo in una spirale di disequilibrio tra la domanda di lavoratori qualificati nel settore manifatturiero e la carenza di offerta di questi (mismatch), con un eccesso di personale formato in settori poco retribuiti o che hanno uno spazio limitato all’interno dell’economia catalana. Questa dinamica finisce per provocare un esodo di talenti catalani, mentre molte industrie sono prive del capitale umano necessario per crescere, accentuando così il loro declino.
Nel caso catalano, occorre aggiungere la mancanza di considerazione e di azioni competenti da parte delle autorità pubbliche per affrontare questo problema, così come le pressioni sia dei settori pseudo-ufficiali, che vogliono catturare la spesa pubblica, sia da gruppi imprenditoriali che, in mancanza di alternative, optano per settori produttivi senza valore aggiunto in grado di generare rapidi margini di profitto a scapito di elevati costi a lungo termine, come sarebbe il turismo.
Pertanto, possiamo osservare come la sfida della definizione della politica industriale in una società post-industriale non si basi esclusivamente su incentivi economici, ma, forse principalmente, su fattori culturali e ideologici. Se la prima industrializzazione fu segnata dal suo legame con la costruzione e il rafforzamento del moderno stato-nazione, oggi la politica industriale deve essere accompagnata anche da politiche volte a superare la frammentazione della società post-industriale, ritessere i legami che consentono l’esistenza di comunità organiche con un’elevata capacità di mobilitazione e una correzione demografica. La battaglia per l’industria è fondamentalmente una battaglia culturale per garantire la solidità delle istituzioni pro-industriali, la mobilitazione e la formazione di una forza lavoro competente, la guida degli sforzi di investimento e lo stimolo della leadership di imprenditori visionari.
Cosa significa nazionalismo industriale?
La politica industriale non ha solo un impatto diretto sui settori economici da essa interessati, ma ha sempre una portata nazionale, poiché mira a modificare la struttura produttiva, e quindi sociale, di una comunità. Con una visione completa della politica industriale, possiamo osservare come essa incorpori dimensioni di sicurezza, coesione sociale, struttura territoriale e, ovviamente, proiezione globale. Parliamo di una politica che, se presa sul serio, richiede la mobilitazione di importanti risorse pubbliche e private, materiali, ma anche culturali, riorganizzando non solo l’economia, ma l’intera società in cui viene applicata.
Una politica industriale applicata profondamente è essenzialmente una politica di costruzione nazionale che, intenzionalmente o meno, forgia il carattere di una nazione. Ecco perché possiamo chiamarlo nazionalismo industriale. Prima di proseguire è necessario evidenziare due punti che a prima vista potrebbero sembrare contraddittori. Innanzitutto, non si può pretendere che la politica industriale risolva tutti i problemi di un paese, come ha spiegato Dani Rodrik in una recente intervista. In secondo luogo, una politica industriale efficace ha un impatto sull’intera spina dorsale dell’economia di una nazione, essendo, quindi, una politica che non è solo al servizio dell’autonomia e della prosperità di una nazione, ma contribuisce anche a vertebrarla. Ciò significa che la re-industrializzazione, di per sé, non sarà la soluzione a tutti i problemi dell’economia o della società catalana, ma dovrà essere al centro della pluralità di azioni per superare le nostre sfide politiche, demografiche, identitarie ed economiche.
La prima cosa di cui il nazionalismo industriale catalano ha bisogno è di stabilire una visione a lungo termine. È fondamentale comprendere le esigenze del settore industriale catalano e attivare un settore economico del paese che spesso viene ignorato e senza rappresentanza politica. Coordinatamente, è essenziale costruire un corpo intellettuale che lavori per cambiare l’opinione pubblica in una direzione pro-industriale attraverso l’intervento nei media, la ricerca nei “think tank” e nei gruppi di pressione organizzati, incorporando queste richieste nelle forze e istituzioni con capacità di agire in Catalogna.
Questa visione deve essere in grado di rispondere a domande geoeconomiche come: all’interno di quali segmenti delle catene di valore globali vogliamo includere la Catalogna? e come il futuro economico del paese si integrerà nel quadro di una visione geopolitica catalana? -altrove è stata chiamata Catalogna talassocratica-, vale a dire con una vocazione alla connettività globale e industriale.
Fondamentalmente, i primi passi per scommettere sul nazionalismo industriale implicano l’avvio di una profonda battaglia culturale, infondendo nel paese un atteggiamento vitalista che cerchi di elevare sia individualmente che collettivamente i catalani, opponendosi all’attuale tendenza promossa dalle istituzioni catalane all’equalizzazione verso il basso. Una parte cruciale di questa azione culturale è promuovere la cultura industriale, costruendo un immaginario che valorizzi i guadagni dell’industria nazionale fornendo ispirazione ai cittadini catalani, in particolare l’eredità della prima rivoluzione industriale catalana, oggi spesso messa in discussione.
Insieme alla trasformazione del sentimento prevalente in Catalogna, questa visione a lungo termine deve concretizzarsi in proposte tangibili che ci permettano di rafforzare settori specifici. È fondamentale partire da ciò che già abbiamo e studiare le richieste dei settori industriali del paese. Sostenere le esigenze delle industrie emergenti, come i settori chimico e farmaceutico, è un buon punto di partenza, ma le decisioni a lungo termine devono essere il risultato di considerazioni strategiche e non semplicemente cercare di soddisfare interessi particolari. In questo senso, una seconda fase consiste nell’individuare quali settori sono difficili da recuperare, come sembra essere il caso dell’industria automobilistica, e scommettere su industrie adiacenti che permettano la riconversione di una parte del know-how accumulato da questi settori.
Il fatto che alcuni settori siano importanti oggi non garantisce che continueranno ad esserlo anche in futuro. Pertanto, è necessario prendere decisioni basate sulle attuali condizioni geopolitiche e sugli interessi particolari della Catalogna, optando per settori che rappresentano una scommessa fattibile a lungo termine. Ciò potrebbe includere, tra gli altri, settori quali la robotica, i droni, l’industria marittima, o spaziale, la biotecnologia e le energie rinnovabili. L’unico limite è la fantasia, ma bisogna essere selettivi e proporre scommesse concrete, senza lasciarsi influenzare troppo dai trend del momento.
Proposte per il nazionalismo industriale catalano
In relazione agli orizzonti futuri del nazionalismo industriale, ci sono alcune strategie che possono essere messe in pratica immediatamente. Gli strumenti a disposizione per il nazionalismo industriale sono diversi e comprendono la generazione di incentivi per attrarre capitali privati nel settore industriale, finanziamenti pubblici per la ricerca e le infrastrutture, quadri normativi favorevoli per facilitare l’attività economica, impulso alle riforme educative per la formazione di una forza lavoro qualificata, la creazione di zone economiche speciali per attrarre investimenti stranieri e incoraggiare il dinamismo economico, l’utilizzo della pubblica amministrazione come cliente delle nuove industrie emergenti, nonché incentivi fiscali, tra le altre misure.
Date le condizioni attuali, la politica industriale catalana dovrà probabilmente ricorrere a strumenti che si concentrino maggiormente sulla semplificazione delle normative, sulle riforme dell’istruzione, sul miglioramento dell’efficienza amministrativa e sulla riduzione del carico fiscale, invece di fare affidamento su grandi investimenti pubblici, sussidiari o protezionismo. In caso di cambiamenti nello status politico della Catalogna, la gamma dei meccanismi disponibili potrebbe essere ampliata.
In questo senso, nonostante la Generalitat abbia una capacità limitata di investire risorse pubbliche direttamente in aziende selezionate, ciò può essere considerato un vantaggio per evitare politiche dannose in cui la politica industriale è intesa come una sorta di stato sociale per le aziende non sostenibili. A tal fine, è importante tenere conto delle pratiche attuali, che includono l’uso indiscriminato di fondi pubblici per alimentare reti clientelari a spese dei contribuenti, nelle amministrazioni catalane.
Una prima misura immediata sarebbe eliminare le normative inutili, ridurre al minimo le procedure burocratiche ed espandere il sostegno per facilitare le procedure di richiesta di permessi e aiuti alle industrie presenti in Catalogna. In questo modo, si può contribuire a sbloccare la creatività e facilitare lo sviluppo di nuovi progressi industriali e tecnologici. Una seconda area di azione è la necessaria riforma del sistema educativo catalano al fine di promuovere competenze a vantaggio della re-industrializzazione del Paese.
Una terza area di azione riguarda un cambiamento radicale nella politica energetica catalana. Nel contesto attuale, abbiamo osservato l’impatto del prezzo dell’elettricità e l’importanza della sicurezza energetica. Pur avendo un livello tecnologico inferiore rispetto ad altri territori europei, l’accesso all’elettricità a basso costo potrebbe aumentare enormemente la competitività dell’industria catalana. Per questo è importante invertire l’attuale politica che ostacola lo sviluppo delle energie rinnovabili così come l’opposizione all’energia nucleare.
Una quarta area di azione, all’interno dei margini delle entrate del governo catalano della Generalitat, consiste nel promuovere una riduzione delle tasse e fornire incentivi fiscali per stimolare l’industria, soprattutto per le piccole e medie imprese. In Italia, ad esempio, le PMI godono di ampi sconti fiscali per l’acquisto di nuovi macchinari, il che dà loro un vantaggio comparativo rispetto alle PMI catalane che, in molti casi, lavorano con macchinari obsoleti.
Infine, c’è un elemento di leadership che ha poco a che fare con le leggi esistenti sulla carta. Gli investimenti esteri che la Generalitat attirò negli anni ’80 non furono il risultato delle competenze presenti nelle amministrazioni autonome, ma di una dimostrazione di ambizione. In questo senso, andare alla ricerca di investitori attraverso l’uso della diplomazia personale permise alla Catalogna di colpire rispetto al suo peso reale. C’è una parte molto importante del processo decisionale che porta a investire in un luogo che ha a che fare con elementi immateriali che rendono attrattivo un territorio. Spesso è molto più importante vedere un dinamismo sociale e una leadership politica che prenda sul serio la promozione di un settore economico, piuttosto che le misure specifiche che vengono messe in atto.
Oggi la Catalogna offre un’immagine interna ed esterna contraria allo sviluppo industriale e tecnologico. Spetta a noi correggere questo attraverso un chiaro impegno a favore del nazionalismo industriale. Dobbiamo presentare e realizzare una Catalogna ottimista che abbracci le opportunità del futuro, invece di una Catalogna che lamenta un passato recente che è già morto. In questo senso, nonostante sia orfana di rappresentanza politica e colpita da un insieme di politiche sfavorevoli, l’industria catalana non solo è riuscita a sopravvivere a un periodo prolungato di declino industriale in Occidente, ma è in grado di presentare posizioni di leadership in alcuni settori chiave. Ciò va valorizzato e dovrebbe essere motivo di orgoglio per il nostro paese.
Una buona leadership, flessibilità burocratica, incentivi fiscali e formazione del personale in grado di soddisfare le esigenze delle industrie, insieme ai vantaggi geografici offerti dal paese e alla forza industriale di cui già disponiamo in Catalogna, costituirebbero fin dall’inizio un pacchetto interessante per attrarre investimenti esteri e incoraggiare l’industria locale.
Senza abbracciare il potere dello sviluppo tecnologico e industriale come motore della crescita economica, non possiamo migliorare la qualità della vita del popolo catalano. In questo senso, il nazionalismo industriale è una pietra miliare moralmente necessaria. Solo i popoli che saranno in grado di superare il declino delle società post-industriali e sapranno guidare con slancio l’avanzata verso un rinascimento neo-industriale potranno far risplendere le loro nazioni nella tesa geopolitica del XXI° secolo.
* traduzione Àngels Fita – AncItalia
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