La Catalogna e il deficit fiscale: un drenaggio economico pianificato
Eduard Gracia – Eduard Gracia è un economista e MBA, nonché autore di numerosi libri e articoli su argomenti economici. Per quasi tre decenni ha lavorato come consulente aziendale prima a New York, poi a Londra e infine a Dubai. Attualmente è professore di economia internazionale presso l’Università di Barcellona.
28/02/2024 – https://cataloniaglobal.cat/catalunya-i-el-deficit-fiscal-una-sagnia-economica-planificada/
Alcune notizie, per quanto spettacolari possano sembrare, potrebbero non essere rilevanti di per sé, ma lo sono a causa della realtà di fondo che rivelano, come il dito puntato verso la luna. È il caso dello studio che il governo (Generalitat) della Catalogna ha presentato il 18 settembre 2023, rivelando che il deficit fiscale della Catalogna (cioè la differenza tra la riscossione fiscale del governo spagnolo in Catalogna e le spese sostenute in questo territorio) nel 2020 e 2021 ammontano rispettivamente al 9,8% e al 9,6% del PIL catalano.
Grafico 1: Evoluzione del deficit fiscale in Catalogna (% PIL – metodo del flusso di cassa)
Fonte: Generalitat de Catalunya (gli anni 2017 e 2018 sono estrapolati perché non sono disponibili dati da questa fonte)
In Catalogna, la notizia aveva suscitato un fievole mormorio alquanto scoraggiante: questi dati recenti stabiliscono semplicemente un nuovo punto di riferimento per il noto drenaggio fiscale sulle risorse che, dal 1986, oscilla all’incirca tra il 7% e il 10% del PIL catalano e che, nonostante la costante e rumorosa indignazione negli anni, ha avuto la tendenza ad aumentare lentamente nel tempo. Altrove, la maggior parte dei media non ha nemmeno considerato la notizia degna di nota: dopo tutto, ogni anno lo stesso dito punta sulla stessa luna e, dall’esterno, sembra solo un meschino litigio finanziario tra governi.
Tuttavia, la luna è ancora dov’è ed è difficile non vederla. Natalia Mas, ministro dell’Economia e delle Finanze della Generalitat, ha descritto le principali conclusioni del rapporto come rivelatrici di uno “strangolamento finanziario prolungato, ingiusto e deliberato” dell’economia catalana. Aveva ragione? E se così fosse, perché i governi spagnoli con affiliazioni politiche radicalmente opposte perseguirebbero in modo costante una politica così dannosa contro una delle più grandi regioni sotto la loro responsabilità?
Come sempre accade con i dibattiti politicamente impegnativi, le discussioni sui saldi fiscali in Spagna troppo spesso si accendono intorno ad obiezioni infondate. Una di queste è metodologica. L’approccio adottato dalla Generalitat (il “metodo dei flussi di cassa”) è il più diretto e intuitivo: calcola semplicemente le tasse e i trasferimenti assimilabili a tasse dalla Catalogna verso le istituzioni del governo spagnolo, sottraendo i trasferimenti e le spese sostenute dalle suddette istituzioni in Catalogna. L’unica correzione importante riguarda l’accumulo del debito pubblico spagnolo, che consente ai governi di spendere più di quanto raccolgono ogni anno in tasse e altre fonti di entrate. Non apportare alcuna rettifica a questo concetto equivarrebbe a contabilizzare come reddito lo scoperto di un conto, poiché i debiti contratti alla fine dovranno essere pagati
In Spagna, un altro approccio al calcolo, il “metodo costi-benefici”, è stato talvolta proposto come una rappresentazione più accurata della realtà. Questo metodo attribuisce a tutte le comunità autonome, indipendentemente da dove viene effettuata la spesa, i costi a cui partecipano le istituzioni spagnole che, in qualche modo, sono considerati vantaggiosi per tutti, dai ministeri e servizi condivisi ai musei considerati “di interesse nazionale”, come El Prado, a Madrid. Tuttavia, questo metodo presenta due inconvenienti principali. Innanzitutto, le regole di allocazione possono essere più o meno ragionevoli. Perché, ad esempio, vengono riallocati i costi del Prado e non quelli dei musei situati in altre città spagnole? In ogni caso, tali regole sono inevitabilmente arbitrarie e quindi introducono un elemento fortemente soggettivo in un calcolo che dovrebbe essere chiaro e oggettivo. In secondo luogo, la spesa regionale ha un impatto macroeconomico locale (aumento del PIL, più lavoro, ecc.) che le allocazioni costi-benefici nascondono. Indipendentemente da chi trae vantaggio dal loro lavoro, sono le persone impiegate da El Prado, che lavorano a Madrid e spendono lì la maggior parte del loro reddito, a sperimentare realmente questo impatto. Pertanto, il metodo dei flussi di cassa è quello che meglio si presta ad una valutazione obiettiva, oltre a chiarire l’impatto macroeconomico dei saldi fiscali.
Il dibattito in Spagna è molto intenso, soprattutto perché le cifre relative al deficit fiscale della Catalogna sono davvero scioccanti rispetto agli standard internazionali. È raro, se non mai, trovare regioni in qualsiasi democrazia sviluppata, indipendentemente da quanto progressive possano essere le loro politiche fiscali e di spesa, che siano soggette a un deficit fiscale così elevato. Negli Stati Uniti, ad esempio, gli stati che fungono da principale motore economico del paese hanno deficit fiscali che ammontano a meno della metà di quello della Catalogna (ad esempio, 4% per New York o 4,2% per la California nel 2005), e anche uno stato come il Connecticut, con un PIL pro capite superiore del 31% alla media statunitense, aveva un deficit del 7,3% nel 2005. Nel Regno Unito, il deficit fiscale di Londra, il più alto del paese, era pari al 6,6% del PIL nel 2016 -17, mentre il suo PIL pro capite era dell’80% superiore alla media del Regno Unito. Il confronto rende ancora più notevole il caso della Catalogna, che ha un PIL pro capite superiore solo del 17% a quello della Spagna e tuttavia grava di un deficit fiscale pari a quasi il 10% del suo PIL.
Il diavolo si nasconde nei dettagli
Il caso catalano diventa ancora più peculiare quando si approfondiscono i dettagli. Ad esempio, dall’esterno ci si potrebbe aspettare che questo enorme deficit fiscale sia il risultato involontario di regole redistributive automatiche, come le pensioni finanziate da comunità autonome con popolazioni in età lavorativa più elevate e pagate ad altre con popolazioni più anziane. I numeri, però, ci raccontano una storia molto diversa. Nel 2021, ad esempio, la Catalogna ha contribuito per il 19,2% alle entrate totali del governo spagnolo, una cifra che sembra ragionevole considerando che il PIL catalano rappresenta il 19% di quello della Spagna, ma ha ricevuto solo il 13,6% della spesa totale dello Stato. E, se escludiamo i pagamenti e i contributi della previdenza sociale, che nel caso della Catalogna sono generalmente equilibrati, il contrasto diventa molto più marcato: il 19% delle entrate fiscali del governo spagnolo proviene dalla Catalogna, anche in questo caso una cifra ragionevole, ma solo il 9% è reinvestito in questa Regione (!). In altre parole, più una voce di spesa è discrezionale, meno è probabile che venga eseguita in Catalogna; o, per usare le parole di Natalia Mas, “ogni volta che lo Stato può scegliere cosa spendere, la Catalogna si ritrova sistematicamente svantaggiata”.
Ciò non avviene solo in Catalogna: la Regione Valenciana e le Isole Baleari sono casi comparabili. Nonostante il fatto che, per ragioni politiche, e, a differenza della Catalogna, i loro governi regionali non calcolino regolarmente il deficit fiscale, i dati disponibili per il 2005 indicano che il deficit delle Isole Baleari, con un astronomico 14,2% del suo PIL, era addirittura peggiore di quello della Catalogna, mentre quello della Comunità Valenciana, stimato al 6,4% del suo Pil, era ancora più scandaloso se si considera che il Pil pro capite di questa Regione era allora dell’8% (e oggi è del 12% ) al di sotto della media spagnola, e nonostante ciò continua a sovvenzionare il resto dello Stato. Ecco i deficit fiscali più alti in Spagna: anche il deficit fiscale di Madrid, nonostante abbia il PIL pro capite più alto della Spagna (32% sopra la media spagnola nel 2005), era solo il 5,5% del proprio PIL. Potrebbe (o meno) essere una coincidenza che la Catalogna, la Comunità Valenciana e le Isole Baleari siano le tre comunità autonome spagnole tradizionalmente catalane. Approfondiremo questo punto più avanti.
Né sembra essere una semplice questione di deviazione delle entrate di queste tre Regioni del Mediterraneo verso le altre, dal momento che le istituzioni spagnole spesso limitano gli investimenti in questi territori (in particolare in Catalogna e nella Regione Valenciana), anche quando la spesa è finanziata dai fondi dell’UE. Un esempio di ciò è quanto sta accadendo con il cosiddetto “Corridoio Mediterraneo”, una linea ferroviaria ad alta capacità e rendimento che correrebbe lungo la costa mediterranea dai Pirenei fino alla punta meridionale della penisola iberica, con un terzo del costo di questo investimento finanziato dall’UE. Nonostante questo incentivo finanziario, e nonostante il progetto copra la tratta con la più alta domanda di trasporto a sud dei Pirenei, il governo spagnolo disprezza sistematicamente questa infrastruttura, ritardandone ripetutamente l’implementa-zione e progettandola con caratteristiche a basso costo che semplicemente non permetteranno di raggiungere gli obiettivi per i quali era stato inizialmente pianificato. Nel frattempo, le regioni centrali e occidentali della penisola, dove la domanda di trasporti è da cinque a dieci volte inferiore a quella della costa mediterranea, vedono un’implementazione e una progettazione molto più rapida di corridoi ferroviari equivalenti con prestazioni molto più elevate.
Se dobbiamo credere ai vari politici spagnoli responsabili di queste politiche, questa discriminazione è intenzionale. José María Aznar (presidente del governo spagnolo dal 1996 al 2004), ad esempio, ricorda nelle sue memorie come decise espressamente di accelerare la realizzazione dell’infrastruttura di trasporto che collega Valencia a Madrid, ritardando al contempo la linea ferroviaria (logisticamente più richiesta) tra Valencia e Barcellona. Sempre sotto il suo mandato, la Spagna propose all’UE che il futuro corridoio ferroviario europeo, invece di seguire il percorso lungo la costa mediterranea (con molta più domanda e che richiederebbe opere di ingegneria più semplici), attraversi la penisola spopolata al centro da Algeciras a sud, via Madrid e Saragozza, per collegarsi con l’Europa attraverso un tunnel straordinariamente costoso di 50 km sotto i Pirenei, collegando così le regioni più spopolate di Spagna e Francia. È difficile comprendere la logica di un progetto di queste caratteristiche, se non per l’unico scopo ovvio: isolare la costa mediterranea e reindirizzare il traffico e i flussi economici verso il centro.
Infatti, per 10 anni, i governi spagnoli, sia PP che PSOE, hanno difeso questo progetto “centrale” economica-mente assurdo di fronte al corridoio mediterraneo fino a quando la Commissione Europea ha deciso di escluderlo dal progetto approvato dal Parlamento Europeo nel dicembre 2013. Anche dopo questa decisione, l’amministrazione spagnola ha reagito pianificando un progetto a basso costo per i segmenti del Mediterraneo (così basso, infatti, da non riuscire a raggiungere gli obiettivi prefissati) e sottofinanziando anche queste opere, al punto che oggi sono irrimediabilmente in ritardo: nel novembre 2022, a nove anni dall’inizio del progetto, l’82% dei tratti previsti per la rotta del Mediterraneo erano ancora in costruzione.
Il costo sociale della discriminazione economica
Potremmo continuare ad elencare esempi di politiche del governo spagnolo che sembrano destinate a limitare deliberatamente in termini economici non solo la Catalogna, ma anche i suoi vicini (e l’entroterra naturale) della Comunità Valenciana e delle Isole Baleari, politiche che possono o meno riflettersi nel loro enorme deficit fiscale. L’impatto di queste politiche sul benessere è considerevole ed è diventato particolarmente preoccupante dall’inizio del XXI secolo, poiché l’enorme ondata di immigrazione che hanno ricevuto questi tre territori ha aumentato il loro bisogno di servizi pubblici: tra il 1997 e il 2022, La popolazione della Catalogna è passata da 6,2 a 8 milioni, quella della Comunità Valenciana da 4 a 5,3 milioni e quella delle Isole Baleari da 0,8 a 1,2 milioni, vale a dire incrementi tra il 30% e il 50% in 25 anni. Non è stato così nel resto della Spagna: negli ultimi 25 anni, la popolazione spagnola al di fuori della Catalogna, della Comunità Valenciana e delle Isole Baleari è cresciuta solo del 12% (da 29 a 32,5 milioni) e, se si esclude anche il caso sempre particolare di Madrid (che, essendo la capitale, è cresciuta a ritmi simili a quelli della costa mediterranea), questo tasso scende a un misero 7,5% nel corso di un quarto di secolo.
Gli immigrati ovviamente si trasferiscono nelle regioni mediterranee della Spagna attratti dalle opportunità economiche e, lavorando lì, creano valore. D’altro canto, però, generano anche una maggiore domanda di servizi pubblici (sanità, trasporti, istruzione…) che, in condizioni normali, potrebbero essere finanziati dal governo con il valore aggiunto che questi immigrati creano con il loro lavoro (tramite imposte, contributi previdenziali, ecc.). Tuttavia, questo non è quello che è successo: poiché l’immigrazione ha raggiunto la Catalogna, così come la Comunità Valenciana e le Isole Baleari, e poiché il loro PIL pro capite è diminuito a causa del fatto che le attività dei nuovi arrivati erano, in media, a valore aggiunto relativamente basso (ospitalità e turismo, edilizia, trasformazione alimentare, ecc.), il deficit fiscale di queste Comunità Autonome non solo non si è attenuato, ma è diventato un fardello ancora più pesante.
L’impatto sociale è enorme. Ad esempio, la Catalogna, che ha il quarto PIL pro capite più alto in Spagna, scende al dodicesimo posto in termini di Indice di Progresso Sociale Regionale secondo le stime dell’UE, mentre le Isole Baleari, con il quinto PIL pro capite più alto, sono al tredicesimo posto in questa classifica. Ciò aiuta anche a spiegare perché una parte così piccola della crescita della Catalogna si è tradotta in un aumento dei consumi: tra il 2000 e il 2019, il PIL pro capite catalano è cresciuto del 14,2%, mentre il consumo pro capite è cresciuto solo di un insignificante 1,7%., mentre le medie spagnole equivalenti sono rispettivamente del 17,8% e dell’8,6%. La mancanza di entrate ha spinto i governi autonomi di queste regioni a compensare questo aumentando le tasse regionali – la Catalogna e la Comunità Valenciana occupano le ultime due posizioni nella classifica della competitività fiscale regionale in Spagna – e, nella misura in cui ciò non è bastato, a indebitarsi; il che ha trasformato la Catalogna e la Comunità Valenciana nelle comunità autonome spagnole con il più alto debito pro capite.
Se l’immigrazione di massa, alimentata dall’attrazione turistica e dal boom edilizio è stata la caratteristica più evidente di questo processo nel primo decennio del 21° secolo, ora che tanto la crisi dell’Eurozona degli anni 2010 quanto la crisi del COVID dell’inizio del 2020 sono finite, ci troviamo di fronte a un secondo fattore che colpisce la Catalogna molto più intensamente rispetto alla Comunità Valenciana o alle Isole Baleari: la gentrificazione causata dalla sua attrattività come luogo di residenza per professionisti ad alto reddito, che aumenta gli affitti e minaccia di sfrattare gli attuali residenti dalle loro case. Si tratta, ancora una volta, di problemi il cui impatto potrebbe essere potenzialmente mitigato attraverso politiche (ad esempio, edilizia pubblica o miglioramento della connettività dei trasporti tra il centro e le aree circostanti) finanziate dalla stessa crescita delle entrate pubbliche. Tuttavia, l’eccessivo deficit fiscale impedisce ciò e lascia i governi regionali a lamentarsi impotenti o, peggio, a promuovere misure populiste a bassa spesa che spostano questi costi sul settore privato (ad esempio, congelamento generalizzato degli affitti o “tariffa sociale” obbligatoria sull’affitto per gli appartamenti di “grandi proprietari immobiliari”) ma che, in termini generali, non fanno altro che peggiorare il problema.
Ragion di stato
Riassumendo, attraverso politiche eccessivamente estrattive e varie forme di discriminazione, le politiche spagnole stanno soffocando il potenziale economico della sua comunità autonoma più promettente, poiché l’incapacità di mitigare gli impatti collaterali della crescita aumenta la disfunzione sociale, il conflitto e il malcontento generale. La domanda è: perché? A questo punto occorre comprendere le pulsioni specifiche della ragion di stato in Spagna.
Grafico 2: densità di popolazione in Europa (NUTS, Nivell 2), 2018.
Fonte: Eurostat (la linea tratteggiata che indica il confine orientale della Diagonale Continentale è stata aggiunta per chiarezza visiva).
In primo luogo, la Spagna è probabilmente lo stato europeo la cui mappa demografica è cambiata in modo più evidente a causa della globalizzazione. Consideriamo l’area altamente spopolata conosciuta come “diagonale continentale” (grafico 2), che si estende all’incirca da Liegi nel Belgio meridionale, tagliando a metà la Francia (dove è conosciuta come “la diagonale du vide”, cioè la diagonale del vuoto) e copre gran parte della Spagna (dove è conosciuta come “la España vacía”, cioè Spagna vuota) fino a terminare in Portogallo poco prima di raggiungere la sua zona costiera più densamente popolata. La Diagonale Continentale comprende antichi altopiani produttori di grano (“il massiccio centrale” in Francia, “l’altopiano” in Spagna) che avevano grande rilevanza economica e demografica prima della Rivoluzione Industriale, ma da allora sono in costante declino. Poiché le attività che aggiungono più valore tendono ad essere quelle che beneficiano maggiormente delle economie di scala, e l’attività attrae anche lavoratori che, a loro volta, richiedono una serie di servizi nel luogo in cui vivono, la concentrazione dell’attività in pochi luoghi privilegiati ( che in Europa occidentale sono principalmente l’asse dall’Inghilterra al Nord Italia e quello che va dalle Alpi a Valencia) non solo accelera con l’integrazione economica, ma finisce anche per acquisire slancio proprio.
Tuttavia, nella maggior parte dell’Europa questa tendenza tende a rafforzare i vecchi centri di potere, poiché la globalizzazione tende ad aumentare il loro peso economico: si pensi alle valli della Senna e del Rodano in Francia (Parigi, Lione, Marsiglia) o alla costa atlantica in Portogallo (Porto, Lisbona). Lo stesso schema si ripete in tutta l’Europa occidentale: l’integrazione economica avvantaggia Londra e il sud-est dell’Inghilterra, la Germania occidentale, l’Italia centro-settentrionale… La Spagna, invece, osserva come la sua popolazione e attività economica si allontanano costantemente dal loro centro storico di potere in Castiglia e si dirigono, principalmente, verso la costa mediterranea; l’unica eccezione è Madrid, la terza area metropolitana più grande dell’UE, che sfida orgogliosamente le forze del mercato dal cuore della regione più spopolata d’Europa, a sud della Lapponia.
Grafico 3: Efficienza e crescita del valore aggiunto nelle comunità autonome spagnole, 2000-2015
Fonte: Dati di Ivie (2019). Diagramma e analisi di Gracia (2021)
Questo spiega perché il successo economico di Madrid presenta alcune caratteristiche insolite. Ad esempio, sul lato destro del grafico 3, che mostra la crescita del valore aggiunto lordo (ovvero, per scopi pratici, la crescita del PIL) tra il 2000 e il 2015, Madrid appare chiaramente come la comunità autonoma in più rapida crescita in Spagna. Tuttavia, a sinistra, l’evoluzione dell’efficienza produttiva (cioè la capacità dell’economia di produrre più uscita (output) per unità rispetto a entrata (input) durante lo stesso periodo ci racconta una storia molto diversa. Che le regioni più turistiche (Baleari e Canarie) abbiano perso efficienza non sorprende: niente è più inefficiente di un edificio vuoto, e queste regioni, dopo uno spettacolare boom edilizio, si sono ritrovate con molti immobili vuoti. Anche il fatto che le regioni più vuote della “Spagna vuota” (ad esempio, Asturie o Estremadura) abbiano aumentato la loro efficienza non sorprende: man mano che le attività economiche si spostano in luoghi più attraenti, quelle che rimangono sono ovviamente le più efficienti del gruppo, quindi la media migliora. La vera incognita è Madrid.
Di fatto, perché l’efficienza di Madrid è diminuita più di quella di qualsiasi altra regione autonoma, ad eccezione delle Isole Baleari, quando le economie di scala nelle sue attività ad alto valore aggiunto avrebbero dovuto avere l’effetto opposto? La risposta è che vi sono state investite molte più risorse produttive (sia lavoro che capitale) di quanto l’efficienza giustificherebbe, e poiché la maggior parte di quel lavoro e capitale appartiene al settore privato, ciò accade perché i margini di queste attività a Madrid sono molto più alti che altrove. E perché questi margini sono molto più alti che altrove in un mercato altrimenti competitivo? Per la presenza a Madrid delle principali istituzioni decisionali pubbliche spagnole, che premiano le aziende che si comportano in linea con i loro intenti politici e, dato che la qualità istituzionale della Spagna è tra le più basse dell’Europa occidentale, anche per gli interessi personali di alcuni “decisors”.
Ad esempio, nonostante Madrid ospiti la maggior parte del settore finanziario spagnolo, il suo mercato finanziario è minuscolo rispetto non solo a quelli di Londra e Parigi, ma anche a Francoforte, Zurigo, Amsterdam e Ginevra. I governi spagnoli possono usare il loro potere economico e normativo per incentivare le sedi centrali e i servizi condivisi dalle banche spagnole alla capitale, ma i mercati finanziari europei sono fortemente competitivi e Madrid difficilmente può giocare in quel campionato.
Ciò spiega anche, per fare un altro esempio, perché l’ecosistema di R&S di Madrid è costantemente in ritardo rispetto a quello della Catalogna, nonostante i budget di R&S di Madrid siano costantemente più alti in termini di risultati riflessi, ad esempio, in brevetti internazionali registrati per milione di PIL o in percentuale di articoli pubblicati tra il 10% più citati al mondo. Il motivo è che la Catalogna (e in particolare la sua capitale, Barcellona) ha un ambiente più attraente (anche turistico) per i giovani professionisti della conoscenza e una base industriale privata locale sostanzialmente rilevante per la ricerca e sviluppo (ad esempio, farmaceutica). In un mercato europeo integrato e competitivo, in cui i finanziamenti pubblici spagnoli per la ricerca e lo sviluppo competono con i fondi pubblici dell’UE e con le multinazionali, i vantaggi offerti dalla Catalogna possono superare, almeno in alcune aree, il vantaggio a lungo termine di Madrid come sede del potere in Spagna.
Ci sono molti altri esempi di attività in cui la competitività di Madrid non è all’altezza dei suoi concorrenti stranieri o della sua eterna rivale: Barcellona, la capitale della Catalogna. Tuttavia, mentre il confronto con i concorrenti stranieri è facile da accettare (ci sarà sempre qualcuno al mondo che è più bravo in questo o quello), la Catalogna innesca un antico conflitto atavico, poiché in Spagna i catalani sono tradizionalmente una minoranza impopolare.
La malattia spagnola
Questo ci porta alla radice del problema. Basandosi sulla sua profonda prospettiva accademica globale sul conflitto sociale e politico, e non solo sulla propria esperienza catalana, Carles Boix, professore di Scienze Politiche e Affari Pubblici dell’Università di Princeton, lo riassume come segue:
“Dal mio punto di vista la Spagna è malata. La sua malattia, che assume la forma di un’ossessione compulsiva, si chiama Catalogna. E il malessere interno è così profondo che, contrariamente alle previsioni che tutti avevano fatto durante la transizione democratica, né la crescita economica, né le libertà politiche, né i trasferimenti sociali degli ultimi decenni sono riusciti a calmarlo”.
Il caso della Catalogna è simile a quello di altri gruppi che hanno tradizionalmente occupato ruoli imprenditoriali nelle economie di società altrimenti tradizionali: ebrei, greci, armeni, arabi cristiani, indiani dell’Africa orientale, cinesi del sud-est asiatico e altri chiamati “minoranze intermedie”. Sulla falsariga di questi gruppi, i catalani hanno storicamente guidato l’industrializzazione e lo sviluppo economico in Spagna e, come loro, sono diventati bersaglio dell’invidia e dell’odio dei loro vicini. Affidarsi al sentimento anti-catalano per far avanzare la propria carriera politica è un trucco talmente antico e conosciuto in Spagna che ha addirittura un nome specifico derivato da un politico che ne fece il suo segno distintivo: Lerrouxismo. Il trucco viene utilizzato così frequentemente che quando politici e celebrità incitano all’odio contro i catalani, difficilmente suscita scalpore nelle notizie spagnole, mentre le dichiarazioni politicamente scorrette contro qualsiasi altra minoranza provocano invariabilmente un’indignazione diffusa.
Esiste infatti un’antica tradizione riformista spagnola che propone la “catalanizzazione della Spagna” come un modo per modernizzare il Paese, ma anche questo flusso letterario considera implicitamente i catalani come un popolo alieno. Già negli anni Settanta del Settecento, autori dell’Illuminismo come Francisco Nifo e José Cadalso proposero che tutte le province spagnole imitassero la Catalogna perché era “una piccola Inghilterra” (Nifo) e i suoi abitanti “gli olandesi della Spagna” (Cadalso). Due secoli dopo, nel 1978, e solo pochi mesi prima dell’approvazione dell’ultima Costituzione spagnola, il giornalista conservatore José María Carrascal propose nuovamente di “catalanizzare la Spagna” perché i catalani, secondo lui, mostravano le “virtù civiche” che caratterizzano i popoli democratici di lunga data come “gli svizzeri e gli inglesi”. Dieci anni fa (settembre 2013), la conservatrice Esperanza Aguirre presentò la stessa idea in un discorso tenuto a Barcellona. Sebbene queste proposte possano sembrare lusinghiere ai catalani, l’esperienza di conflitti simili dovrebbe ricordarci che la lode può trasformarsi in odio con la stessa facilità con cui l’ammirazione può trasformarsi in invidia: basti paragonare l’elogio di Friedrich Nietzsche agli ebrei nell’opera “Al di là del bene e del male”, con le parole (e i fatti) dei nazisti che affermavano di essere suoi ammiratori.
Due nuovi fattori potrebbero aver ulteriormente aggravato il conflitto negli ultimi decenni: l’ascesa dello stato sociale e l’integrazione economica europea. Il deficit fiscale della Catalogna esiste almeno dalla fine del XIX secolo, ma fino agli anni ’80 la spesa pubblica spagnola non superava il 20% del PIL spagnolo, quindi il peso era più sopportabile. Invece, dagli anni ’80 la Spagna è diventata uno stato sociale consolidato, la cui spesa rappresenta quasi la metà del suo PIL. Pertanto, poiché il carico fiscale complessivo è molto più pesante, lo è anche il deficit fiscale. Allo stesso tempo, come prezzo per l’integrazione economica europea, la Spagna ha rinunciato a molti strumenti di controllo economico come i dazi, la politica monetaria e varie forme di sussidi discrezionali. L’integrazione europea ha portato una prosperità diffusa, ma ha anche accelerato lo spostamento economico della Spagna verso la costa mediterranea. Poiché anche l’attività economica è una forma di potere, l’equilibrio di potere interno della Spagna, lasciato alle spinte del mercato, potrebbe eventualmente inclinarsi nella stessa direzione, il che potrebbe aver innescato l’istinto di autoprotezione dello “establishment” spagnolo. Allo stesso tempo, poiché le regioni più favorite dal mercato risultano essere quelle con il più intenso substrato culturale catalano (a cominciare dalla più grande di tutte, la Catalogna stessa), è troppo forte la tentazione di sfruttare quell’antico odio popolare contro un popolo che è sempre sembrato più disposto a cogliere i venti della modernità.
Un deficit fiscale eccessivo e altre misure economiche discriminatorie potrebbero quindi riflettere l’uso del potere coercitivo dello Stato per reindirizzare i flussi economici verso regioni, imprese e “tasche” più gradite alle sue élite, anche a un costo colossale in termini di perdita di efficienza economica e, in definitiva, di benessere. Queste misure discriminatorie potrebbero non essere facili da giustificare davanti al pubblico in un sistema democratico, ma, in Spagna, sono facilitate da vecchi pregiudizi contro i catalani, che, a differenza di altre forme di pregiudizio culturale (ad esempio, contro le culture degli immigrati o contro le comunità LGTBI), oggi non solo sono tollerate ma addirittura promosse attivamente da alcuni dei principali presentatori dei media spagnoli (in particolare e notoriamente sulla rete ultraconservatrice COPE).
È qui che entra in gioco la promozione istituzionale da parte della Spagna del ruolo economico di Madrid. Per attrarre attività ad alto valore aggiunto in un luogo che rafforzi gli storici equilibri di potere della Spagna, queste attività devono essere localizzate in una grande area metropolitana con le dimensioni, i servizi e le opportunità che richiedono. In Spagna, solo Madrid e Barcellona possono competere in questa contesa. Con le spinte del mercato che favoriscono Barcellona come luogo naturalmente più attraente (più turistico, rilevante dal punto di vista industriale, logisticamente accessibile, ecc.) e le istituzioni statali che usano il loro potere coercitivo per reindirizzare i flussi di ricchezza verso Madrid (la tradizionale sede del potere della Spagna), l’amaro conflitto tra le due metropoli non può che peggiorare. Ramon Tremosa, autore, professore di economia all’UB, deputato al Parlamento della Catalogna ed ex ministro dell’Economia e della Conoscenza del Governo della Generalitat, lo esprime in modo sintetico: è una lotta dello “Stato contro il mercato”.
Negli ultimi vent’anni il conflitto ha seguito uno schema di costante escalation. Di fronte alla discriminazione economica da parte dei governi spagnoli (in un momento in cui, come abbiamo visto, arrivavano nuove opportunità economiche insieme ad un’ampia gamma di esigenze di spesa sociale), le forze politiche e sociali catalane hanno reagito innanzitutto promuovendo nel parlamento spagnolo un nuovo Statuto di Autonomia che comprendeva alcune regole esplicite per un’equa distribuzione delle risorse tra le regioni. D’altra parte, il lerrouxismo di cui abbiamo parlato ha mostrato il suo volto più ostile e molti politici spagnoli hanno intensificato i loro discorsi di odio contro i catalani: una parte importante della stampa criticava la proposta, sono state raccolte più di quattro milioni di firme contro lo “Statuto di autonomia” in tutto il territorio spagnolo e, nonostante la sua approvazione (dopo una notevole modifica) da parte del parlamento spagnolo, una Corte Costituzionale altamente politicizzata lo ha praticamente invalidato.
L’episodio della raccolta firme fu forse il più rivelatore: considerando che la Catalogna ha poco più di cinque milioni di aventi diritto al voto, quattro milioni di firme “contro i catalani” (come spesso veniva promosso) implicano che qualsiasi politico spagnolo ha più da perdere che da guadagnare offrendo un trattamento equo alla Catalogna, dal momento che gli elettori catalani non potrebbero mai compensare i voti di coloro che sono disposti a penalizzare un leader politico per aver offerto un qualsiasi vantaggio a un popolo che non piace.
Questo rifiuto a prendere in considerazione soluzioni relativamente semplici ad un problema persistente spinse la parte catalana verso opzioni che non richiedevano il sostegno istituzionale spagnolo per essere implementate, il che ovviamente ha portato molto rapidamente ad una spinta verso l’indipendenza. La risposta del governo spagnolo è stata la violenza e la repressione, mentre nei media e nelle strade erano presenti espressioni di odio contro i catalani. Forse la cosa più significativa è che, dopo il tentativo fallito del 2017 di rendere la Catalogna uno Stato indipendente, le proposte delle istituzioni e dei media spagnoli hanno spaziato dalla dura repressione all’indulto per promuovere la riconciliazione, ma molto raramente, se non mai, hanno incluso un approccio credibile per affrontare il problema fondamentale. Ciò potrebbe significare che il peso di preservare l’equilibrio di potere e i pregiudizi popolari per coloro che avanzano queste proposte è così elevato da superare l’ovvio obiettivo di promuovere qualsiasi soluzione sostenibile a lungo termine.
Questa è la luna cupa verso cui puntano tante dita. Finché non verrà presentata alcuna soluzione al problema fondamentale, la questione potrebbe essere temporaneamente attenuata dalla paura della repressione politica e dalle scarse aspettative di cambiamento, ma col tempo è destinata a crescere e peggiorare.
Quindi bisognerà restare attenti: questa storia è lungi dall’essere finita.
* traduzione Àngels Fita – AncItalia
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