L’ indipendenza della Catalogna, una grande opportunità democratica per l’Europa

 

 

L’ indipendenza della Catalogna, una grande opportunità democratica per l’Europa

 

 

Vicent Partal     16.05.2023 – 21:40

 

Questo articolo è stato pubblicato originariamente in inglese in Horizons, sul numero di primavera del 2023 di questa rivista.

 

 

La crisi tra la Spagna e la Catalogna non è nuova: c’è stato un conflitto politico e istituzionale tra le due nazioni fin dal XVIII secolo. Durante tutto questo periodo, la Catalogna ha fatto diversi tentativi per proclamare l’indipendenza. Lo fece nel 1810, ma due anni dopo fu incorporata nell’impero napoleonico e poi tornò in Spagna nel 1814. Ci provò di nuovo il 14 aprile 1931, ma nel giro di poche ore divenne, per la prima volta, un’autonoma regione della Spagna. Vi tornò nell’ottobre 1934, cui seguì una dura repressione che portò alla prigionia del governo catalano fino alla vittoria del Fronte popolare nel 1936 segnando l’inizio dell’insurrezione franchista. Infine, il 27 ottobre 2017, c’è stata un’altra dichiarazione di indipendenza e questo episodio, nonostante le apparenze, è tutt’altro che concluso.

 

Eccetto i fatti del 1931, la risposta spagnola alla proposta catalana è sempre stata il rifiuto del dialogo e il ricorso alla repressione. Le immagini della polizia spagnola che aggredisce i cittadini che votavano per il referendum di autodeterminazione del 1° ottobre 2017 – irruzione nei seggi elettorali e sequestro delle urne – hanno fatto il giro del mondo e hanno riportato la Catalogna in prima pagina ovunque.

 

Poco dopo, la presidente del Parlamento della Catalogna, Carme Forcadell, fu incarcerata e il presidente del governo, Carles Puigdemont, andò in esilio; due eventi che non sono affatto comuni nell’Europa democratica, ma che invece lo sono in Spagna. A questo proposito, è importante analizzare il destino personale dei tredici presidenti della regione autonoma della Catalogna che hanno governato dal 1931, per comprendere meglio il fatto che i rapporti tra la Catalogna e la Spagna non sono mai stati facili. Cinque sono stati imprigionati a un certo punto della loro vita, due hanno subito interdizione dai pubblici uffici per motivi politici, sei sono andati in esilio – uno dei quali fu presidente in esilio durante gli anni di dittatura – e uno, il presidente Lluís Companys, fu imprigionato dalla Repubblica spagnola dal 1934 al 1936, esiliato nel 1939, consegnato alla Spagna dai nazisti e fucilato dal regime franchista. Ad eccezione dell’attuale presidente del governo catalano, solo due dei 13 presidenti catalani del periodo autonomo sono riusciti a evitare la repressione.

 

Curiosamente, uno dei due presidenti che non ha subito repressione, Pasqual Maragall, è il principale protagonista del grande cambiamento di questi anni. Maragall era un combattente socialista antifranchista, sindaco di Barcellona durante i Giochi Olimpici del 1992, e, piano piano, da federalista quale era iniziò a spostarsi verso posizioni indipendentiste.

 

Pasqual Maragall divenne presidente del governo catalano nel 2003, quando sostituì Jordi Pujol, il carismatico nazionalista di destra che aveva governato l’autonomia catalana tra il 1980 e il 2003. Il governo che Maragall formò riuniva il Partito dei Socialisti della Catalogna –affiliato al PSOE spagnolo–, i post-comunisti e l’unica formazione indipendentista dell’epoca, chiamata “Esquerra Republicana”.

 

In quelle elezioni “Esquerra” ottenne il 16,59% dei voti popolari. Nel 2022, vent‘anni dopo, il movimento indipendentista, già diviso in tre diverse forze, ottenne il 52% dei voti popolari. Dal 16% al 52%. È chiaro che un cambiamento di questa portata non è molto comune; quindi, capire cosa è successo per arrivare a questo grande salto è la chiave per comprendere l’attuale conflitto catalano.

 

Autonomia catalana: il patto che la Spagna non ha rispettato 

 

Dopo la morte di Francisco Franco, l’opposizione democratica concordò con la dittatura di inaugurare un nuovo regime, la cui missione era quella di ammorbidire il profilo della Spagna per permettere l’integrazione europea. Mettere in carreggiata i conflitti nazionali, in particolare quelli in Catalogna e nei Paesi Baschi, era fondamentale per la democratizzazione diventata inevitabile. Questa fu l’origine dell’attuale “stato delle autonomie”. L’autonomia fu concessa a tutte le regioni e territori africani per diluire il potenziale potere autonomo dei catalani e dei baschi. E fu stabilito un modello informale di governo, il sistema delle “due chiavi”.

 

Fondamentalmente, funzionava così: il Parlamento della Catalogna poteva approvare la legge di base, il cosiddetto statuto di autonomia. Ma, una volta approvato, il parlamento spagnolo, le “Cortes”, avevano il diritto di rivedere e modificare, anche al ribasso. Questa era la loro chiave. Successivamente lo statuto tornava in Catalogna, dove il popolo disponeva della seconda chiave, che era votarlo in un referendum, se era respinto se riteneva che fosse stato troppo modificato a Madrid. Lo statuto non si approvava finché non passava attraverso le due chiavi.

 

Il presidente socialista, Pasqual Maragall, era consapevole dei problemi che la Catalogna non era stata in grado di risolvere a causa della mancanza di definizione delle competenze e della povertà di finanziamenti per la continua spoliazione fiscale della popolazione catalana. E decise di redigere un nuovo statuto di autonomia, nel quadro della costituzione spagnola, per risolvere questi problemi.

 

La Catalogna si sentiva intrappolata in una dinamica pericolosa, decenni dopo il patto di transizione. Il welfare state era insostenibile a causa del deficit fiscale tra ciò che la Spagna incassava in tasse e ciò che restituiva. Il governo autonomo era responsabile, tra le altre cose, della sanità, dell’istruzione, della polizia e dell’assistenza sociale. Ma i fondi arrivavano da Madrid, che continuava a riscuotere la maggior parte delle tasse dei catalani.

 

Il dibattito su queste cifre è stato molto intenso negli ultimi anni. In ogni caso, è un onere enorme per il servizio pubblico catalano. All’epoca in cui Maragall era presidente, un comitato di esperti concluse che la differenza tra le spese dello Stato nella comunità autonoma e le entrate fiscali che riceveva (in tasse o contributi previdenziali) era il 6,6% del PIL della Catalogna e il 24,5% delle entrate con cui i catalani contribuiscono alle casse dello Stato. In particolare, nel 2002 la cifra era di 9.220 milioni di euro, cifra che è finalmente salita a 20.196 milioni di euro nel 2019.

 

La solidarietà con le regioni più povere non è mai stata un problema. Il problema era che i cittadini catalani, che pagavano di più, ricevevano meno servizi degli altri. E con ciò, la capacità del governo catalano di mantenere lo stato sociale era minacciata. Per un socialdemocratico come Maragall, questo era inaccettabile.

 

Il Parlamento della Catalogna elaborò, quindi, un nuovo statuto. Cercando di riformulare il rapporto con la Spagna in modo più paritario. Tutti i partiti catalani, eccetto il “Partit Popular”, hanno approvato la legge nel 2006. Ci sono stati 120 voti a favore e 12 contrari. È importante ricordare questo dato, perché una delle accuse dei nazionalisti spagnoli è che la Catalogna è divisa e che le richieste sono inaccettabili per mancanza di una maggioranza significativa. Ma è un dato di fatto che le richieste non sono state soddisfatte nemmeno con una maggioranza superiore al 90%.

 

Poi, secondo il sistema delle due chiavi, la legge fu approvata dal parlamento spagnolo. Gli unici voti contrari sono arrivati ​​dal PP e da “Esquerra Republicana”, partito indipendentista, che riteneva che il parlamento spagnolo avesse modificato troppo il voto del parlamento catalano. E, infine, fu approvato in un referendum con il 73,9% di favorevoli e il 20,7% di contrari, provenienti essenzialmente dal settore indipendentista e da coloro che sono rimasti delusi dai cambiamenti. Ma poi, è saltato tutto.

 

In una situazione senza precedenti, sebbene la legge fosse già stata approvata sia dai due parlamenti che dal popolo, e fosse stata firmata dal monarca, la Corte costituzionale spagnola, per volere del Partit Popular, divenne una sorta di terza camera del parlamento e modificò ulteriormente lo statuto, tagliando ancora una volta le competenze secondo la sua volontà. Non si era mai visto niente di simile.

 

Ciò avvenne nel 2010 e segnò l’inizio del processo di indipendenza, perché gran parte della popolazione catalana ebbe la sensazione che il patto costituzionale fosse stato infranto in modo unilaterale, autoritario e ingiusto. Emerse anche il sospetto che la magistratura stesse interferendo nel processo democratico. Se l’autonomia poteva essere vista come un processo di autodeterminazione interna dei catalani, la decisione della Corte costituzionale spagnola di smantellare lo statuto di autonomia apriva la porta all’autodeterminazione esterna.

 

Gli antecedenti: la Spagna è uno stato eccentrico in Europa

 

Di fronte a un problema politico, il governo di uno stato democratico reagisce cercando una soluzione politica, preferibilmente attraverso il dialogo. Non è stato così in Spagna, come è noto.

 

Per cinque anni, dalla violazione dello statuto e vista la gravità della situazione, i partiti catalani cercarono di trovare una soluzione concordata con la Spagna che incanalasse le aspirazioni di una popolazione sempre più indignata. Tentarono di stabilire un patto fiscale. Fallito perché il governo spagnolo non voleva nemmeno parlarne. Furono proposte misure per promuovere la lingua catalana. Non sono mai stati accettate. Si discusse la possibilità di un referendum di autodeterminazione e le autorità catalane chiesero formalmente a Madrid, più di una dozzina di volte, la corrispondente autorizzazione, seguendo l’esempio del referendum scozzese. Madrid rifiutò.

 

Non solo ogni possibilità in questo senso è stata negata, ma il nazionalismo spagnolo – che non era mai scomparso dalla scena, ma si era soltanto mimetizzato – si è sempre più intensificato socialmente. Il franchismo aveva la sua base ideologica nel nazionalismo spagnolo. Per questo motivo il nazionalismo spagnolo per decenni ha avuto una connotazione negativa e sembrava socialmente e politicamente non rappresentabile. Ma dal XXI° secolo, prima della crisi catalana e nel bel mezzo della crisi basca, il nazionalismo spagnolo è tornato a crescere, combattivo e inflessibile come sempre. E la crisi catalana, dovuta soprattutto alla violenta intransigenza del re, ha messo saldamente al centro il nazionalismo spagnolo e ha spezzato gli accordi della cosiddetta “transizione democratica”.

 

Per cui, se si vuole capire l’attualità, bisogna prima capire questo periodo chiave della storia spagnola. Durante gli anni ’30, quasi tutta l’Europa era dominata da dittature. La Spagna, con il suo regime alleato alla Germania nazista, non fece eccezione. Ma ora lo è, perché la Spagna è l’unico stato europeo che non si è sbarazzato del suo passato dittatoriale. Non c’è stata rottura con la dittatura, né le istituzioni dello stato sono state epurate.

 

Dopo la morte di Franco ci fu un patto tra deboli. Ad eccezione della Catalogna e dei Paesi Baschi, l’opposizione democratica era molto fragile e anche la dittatura era molto debole e aveva bisogno di integrarsi in Europa. Si attivò quindi un’operazione di transizione dal franchismo a un sistema formalmente democratico, che doveva lasciare intatte le fonti di potere del vecchio regime militare ribelle. E così fu.

 

Sulla base di una legge di riforma del regime franchista, fu approvata una costituzione da un parlamento che non era – e questo è un fatto molto significativo – un’assemblea costituente. Le strutture di potere del regime franchista, ancora in vigore, subirono un’operazione di maquillage. Il re Juan Carlos, nominato personalmente da Franco, rompendo la linea dinastica legale, divenne da un giorno all’altro un re democratico e profondamente corrotto, come tutti abbiamo visto in seguito. La magistratura cambiò le insegne sulle porte, ma poco più. Il sinistro Tribunale dell’Ordine Pubblico della dittatura divenne l’Audiencia Nacional in data 5 gennaio 1977, ma i giudici, i funzionari e i casi su cui indagavano erano gli stessi. Una legge di amnistia liberava i prigionieri democratici, ma allo stesso tempo fungeva da legge dell’oblio, proibendo e prevenendo ogni persecuzione dei criminali al servizio di Franco. Nel frattempo, l’esercito ha continuato a governare. Il secondo articolo della costituzione spagnola, che definisce il rapporto tra le nazionalità e lo Stato, non è stato redatto dai politici, ma dai militari, che li hanno costretti a inserire un proprio testo, come hanno ammesso pubblicamente e per iscritto diversi redattori della costituzione.

 

Le radici dell’anomalia democratica spagnola possono essere facilmente rintracciate. Sulla scia della crisi catalana, i governi spagnoli, siano essi appartenenti al PP o al PSOE, hanno ripetuto fino allo sfinimento che la democrazia si basa sulla supremazia della legge; quindi, hanno contrapposto la legge alla volontà del popolo. E questa è la chiave della legge di riforma politica del regime franchista, la stessa frase, nel primo capitolo. Una legge di regime fascista che si trova sul sito ufficiale della Gazzetta Ufficiale dello Stato teoricamente democratico. Per quanto incredibile possa sembrare, non è mai stato abrogato.

 

Sta di fatto che dopo la morte di Franco sono state chiuse solo poche istituzioni. Alcune hanno subito modifiche estetiche, ma la maggior parte è rimasta invariata. Alla domanda “e cosa succederà dopo Franco?”, uno dei confidenti del dittatore rispose: “Dopo Franco, le istituzioni!” Istituzioni che si presentavano come nuove istituzioni democratiche, ma che erano la personificazione e la conservazione dei principi del regime, nato in opposizione alla democrazia, e la garanzia della continuità di questi principi. Soprattutto, l’unità “sacra” della Spagna.

 

A volte è difficile da capire e da spiegare fino a che punto la Spagna, pur essendo formalmente un paese democratico, sia profondamente radicata nei principi e nelle condizioni della dittatura. Federico García Lorca, senza dubbio uno dei più grandi poeti che la Spagna abbia dato al mondo, è ancora oggi in una fossa comune, assassinato dal regime franchista. Non è che il suo corpo non sia stato ritrovato, il fatto è che non è mai stato cercato. A quasi cinquant’anni dalla morte del dittatore nel suo letto, ci sono ancora 114.000 repubblicani e democratici fucilati dalla dittatura che restano non identificati. I loro corpi sono nei fossati ai lati delle strade. Secondo le Nazioni Unite, solo la Cambogia ha più persone scomparse della Spagna. Al contrario, il corpo di Franco è rimasto nel suo mausoleo di stato fino al 2019, e quando fu spostato il governo socialista gli ha reso gli onori e il riconoscimento di capo di stato.

 

Il processo di indipendenza come rottura democratica

 

In caso di problema politico, il governo di uno stato democratico reagisce cercando una soluzione politica, preferibilmente attraverso il dialogo. Ma qual è l’incentivo al dialogo in uno stato che, grazie alla sua peculiare istituzionalizzazione della dittatura, può cambiare la volontà del popolo servendosi dei giudici? Il dialogo implica cedere, e perché dovresti cedere quando sai di poter decidere chi è deputato e chi no, chi è presidente e chi no, e cosa significa il voto, indipendentemente dal voto popolare e dalla volontà dei cittadini?

 

Questo è il contesto fondamentale dell’attuale conflitto tra la Catalogna e la Spagna. Ed è in questo contesto che tutto quello che è accaduto negli ultimi cinque anni ha un significato anche per l’Unione Europea. La Catalogna ha presentato una proposta politica basata su un percorso riformista che ha ottenuto il sostegno del popolo in ogni sua fase. La risposta della Spagna è stata la negazione dei diritti fondamentali, una repressione indegna di un sistema democratico, con condanne fino a tredici anni di reclusione basate su reati arcaici come la sedizione e la ribellione, e un totale rifiuto a cercare qualsiasi soluzione politica che consenta ai catalani di incanalare istituzionalmente la loro volontà. Il Catalangate, il più grande caso di spionaggio del programma Pegasus al mondo, ne è un chiaro esempio. Nel Parlamento Europeo i partiti spagnoli – dall’estrema destra ai socialisti – hanno difeso all’unanimità la necessità e il presunto “diritto” di spiare i catalani, fatto che ha sorpreso il resto dell’aula.

 

L’attuale sequenza del conflitto è iniziata nel 2015, con la formazione di una grande coalizione per l’indipendenza sotto il nome di “Junts pel Sí” (insieme per il si). Si presentò alle elezioni per il parlamento catalano e vinse. Si presentava con un programma elettorale approvato dal consiglio elettorale spagnolo. Il programma prevedeva che ci sarebbe stata una dichiarazione di indipendenza dopo diciotto mesi. “Junts pel Sí” ottenne 62 dei 135 seggi parlamentari, una netta vittoria, e formò un governo dopo aver raggiunto un accordo con il partito CUP, partito indipendentista della sinistra radicale che aveva ottenuto 10 seggi. “Junts pel Sí” e CUP, insieme, superavano la maggioranza assoluta nel parlamento catalano. “Junts pel Sí” riuniva i due principali partiti nazionalisti catalani dell’epoca, Convergència ed Esquerra, ma soprattutto riuniva personalità indipendenti di ogni genere oltre alle associazioni civiche che avevano promosso e organizzato le immense manifestazioni pubbliche a favore dell’indipendenza. L’esempio migliore di quelle manifestazioni è stata la catena umana che attraversò il Paese l’11 settembre 2013, seguendo l’esempio della Via Baltica. Furono 400 chilometri continui di persone che si stringevano la mano.

 

L’anno precedente, il governo catalano aveva indetto una prima consultazione sull’indipendenza, che non era un referendum formale e non aveva avuto l’approvazione del governo spagnolo. Ma, secondo quanto emerso negli anni, in gran parte per rivelazioni giornalistiche, quell’appello indusse il governo spagnolo, allora in mano al PP, ad attivare la cosiddetta “Operazione Catalunya”. Fondamentalmente, in questa operazione, sussistevano due binari paralleli. Da un lato, lo spionaggio di massa e la fabbricazione di false informazioni sui leader indipendentisti da parte di un gruppo di poliziotti a capo dei servizi segreti. Con la complicità dei principali quotidiani spagnoli, questo gruppo inventò accuse di corruzione e falsità di ogni genere sui leader indipendentisti riuscendo alterare la normalità dei processi elettorali. Dall’altro lato, si modificò una legge, un cambiamento su misura, che conferiva poteri punitivi alla Corte costituzionale trasformandola nell’ariete per attaccare le posizioni adottate dal movimento indipendentista in seno al parlamento catalano.

 

E così fu. Il 6 e 7 settembre 2017, quando il Parlamento della Catalogna approvò con maggioranza assoluta la legge referendaria e la legge di transizione giuridica e costituzionale della Repubblica catalana, la Corte costituzionale spagnola capeggiò l’attacco contro queste leggi. I partiti spagnoli, che avevano solo 52 seggi su 135, abbandonarono il Parlamento della Catalogna e le tensioni sono aumentate vertiginosamente. Va notato che tutto ciò avvenne perché i parlamentari catalani stavano cercando di adempiere al mandato elettorale previsto nel loro programma e che i cittadini avevano votato. Giorni dopo, una nave carica di poliziotti spagnoli arrivava a Barcellona e si diede inizio all’arresto di politici, al sequestro di uffici governativi, a perseguitare partiti e, senza successo, a cercare le urne che avrebbero permesso il referendum di autodeterminazione del 1° ottobre.

 

Quel giorno si sono recati alle urne 2.286.217 catalani, il 43,02% del censo elettorale, nonostante le violenze scatenate dalla polizia spagnola ai seggi. Il risultato fu del 90,18% a favore della proclamazione della Repubblica catalana, proclamazione che il parlamento rese effettiva il 27 ottobre 2017. Il governo spagnolo reagì abolendo immediatamente l’autogoverno e ordinando l’arresto dei principali leader politici e sociali catalani. Tuttavia, in una svolta che cambiò la storia della Catalogna e senza dubbio anche quella dell’Europa, una parte del governo optò per l’esilio.

 

La crisi catalana evidenza la Spagna illiberale

 

Nell’anno 2000, lo storico francese Pierre Rosanvallon propose un nuovo concetto per descrivere il regime di Napoleone Bonaparte: “démocratie illibérale” (“democrazia illiberale”). Il termine è stato subito adottato per descrivere regimi formalmente democratici che, tuttavia, disprezzano e combattono i valori democratici. All’interno dell’UE c’è un consenso assoluto sul fatto che la Polonia e l’Ungheria, almeno, siano incluse in questa categoria.

 

Il modo in cui la Spagna agisce, come reagisce alla proposta catalana, è altrettanto illiberale, indegno di una democrazia. Il tentativo di risolvere il conflitto con la giustizia penale non è solo un grosso sbaglio, ma si tratta anche di un disprezzo per il principio fondamentale della democrazia. Sta di fatto però, che il panico degli altri stati europei davanti alla prospettiva di aprire un vaso di Pandora nazionale, con un appello alla correzione dei confini, inizialmente ritardò la comprensione di quanto era accaduto. E la Spagna ne seppe approfittare per farla franca momentaneamente.

 

La componente illiberale della reazione spagnola si comprende, forse meglio, collocandola nel quadro di quella che il sociologo israeliano Sammy Smooha ha definito come “democrazia etnica”. Con questo termine ci riferiamo a una situazione in cui il sistema politico combina una struttura di dominio e oppressione etnica con il riconoscimento dei diritti democratici, politici e civili per l’intera popolazione, comprese le minoranze. Secondo questo schema, non tutti i cittadini appartenenti a un gruppo nazionale sono necessariamente perseguitati in ogni momento (non è una “democrazia Herrenvolk” come definita per l’apartheid in Sud Africa), ma tutti i membri di una minoranza nazionale sanno di essere oggetto di particolare sospetto e che saranno trattati in modo discriminatorio se succede loro qualcosa, proprio perché non appartengono alla “nazione centrale” che monopolizza il controllo dello stato.

 

Con una definizione così complessa, la crisi catalana sarebbe rimasta confinata in un angolo senza soluzione possibile e incompresa dall’opinione pubblica e dai politici del resto d’Europa. Ma una sorprendente manovra tattica del governo catalano ha aperto la porta a una convergenza di interessi con la costruzione europea che, cinque anni dopo, ha portato il conflitto a un punto interessante non solo per la Catalogna ma anche per l’Europa.

 

Subito dopo la dichiarazione di indipendenza, la maggioranza del governo catalano, guidata dal presidente Puigdemont, ha approfittato della loro libertà di movimento in quanto cittadini europei e si è stabilita a Bruxelles prima che le autorità spagnole emettessero mandati di arresto nei loro confronti.

 

Il nazionalismo catalano è sempre stato profondamente europeista, ma questa volta è andato anche oltre. I leader catalani andarono in esilio sulla base della loro cittadinanza europea e della volontà di essere processati dai tribunali europei, tribunali indipendenti in contrasto con l’evidente mancanza di democrazia e il pregiudizio nazionalista dei tribunali spagnoli.

 

In un primo momento, la manovra, ideata da un team di avvocati guidati da Gonzalo Boye, non fu compresa perché troppo rivoluzionaria. E i politici insieme alla stampa spagnoli pensarono che fosse un atto disperato, quando in realtà fu un audace passo avanti. La Catalogna rispondeva alla messa alle strette della Spagna invitando l’Europa a scegliere da che parte stare. E il fatto più importante è che sapeva come farlo. Non attraverso la classe politica, ma attraverso gli altri tribunali nazionali e, soprattutto, attraverso i tribunali europei: la Corte di giustizia dell’Unione europea (TGUE) e la Corte europea dei diritti dell’uomo (TEDU). Rivendicavano per sé i diritti democratici europei consolidati nel Trattato di Lisbona, proprio perché godevano anche della cittadinanza europea insieme a quella spagnola. In questo modo, hanno posto questo trattato al di sopra della costituzione spagnola e come la vera costituzione da invocare, cosa che è effettivamente vera.

 

Di conseguenza, mentre i leader indipendentisti che rimarranno in Catalogna e riconosceranno l’autorità spagnola restarono in balia di ogni arbitrarietà, incarcerati ed espulsi dalla politica, i politici in esilio lottano e vincono tutte le cause in tutti i tribunali. E vincono anche le elezioni europee in Catalogna. Oggi, tre di questi politici sono eurodeputati, anche se la Spagna ancora non li riconosce.

 

L’arresto del presidente Puigdemont in Germania nel marzo 2018, su richiesta del sistema giudiziario spagnolo, fu il momento chiave. Quando la polizia tedesca lo arresta, appena entrato nel Paese, la magistratura spagnola, la classe politica e i media più nazionalisti fanno festa, convinti che tra poche ore il presidente verrà inviato a Madrid e imprigionato. Erano accecati dall’idea che l’Europa fosse solo un club di stati amici che si sarebbero aiutati a vicenda. Ma poiché l’Europa non è più soltanto questo, dovettero affrontare la realtà. Oggi l’Europa è una “nazione” in costruzione e, soprattutto, uno spazio di libertà garantite a tutti gli europei e non solo ai cittadini di questo o quello stato.

 

La grande visione della manovra venne confermata a luglio, quando il tribunale dello Schleswig-Holstein decise che non vi era alcuna base per l’estradizione di Carles Puigdemont in Spagna per i reati di ribellione, sedizione o disordine pubblico, perché, dopo un’attenta analisi dei fatti, il tribunale non riteneva ragionevoli tali accuse delle autorità spagnole. Il sistema automatico a cui aspirava Madrid non funzionò e il presidente della Catalogna fu rilasciato dopo aver trascorso alcuni giorni in carcere. In Spagna, la gioia cominciò a trasformarsi in ansia.

 

La paura crebbe quando anche le autorità giudiziarie del Belgio, della Scozia e dell’Italia rifiutarono l’estradizione dei politici in esilio e quando il Consiglio d’Europa chiese la libertà dei prigionieri politici (resa effettiva solo quando alcuni avevano superato i tre anni, otto mesi e una settimana in carcere), il ritorno degli esiliati (che ancora non è avvenuto) e una riforma giuridica che dovrebbe eliminare le accuse più inaccettabili in una democrazia, come la sedizione (riforma da poco effettuata). Perfino le Nazioni Unite sono intervenute, in diverse occasioni, per denunciare le violazioni commesse dallo Stato spagnolo nei confronti del movimento indipendentista catalano.

 

Questo arsenale di decisioni giudiziarie ha lasciato la Spagna in una posizione delicata rispetto agli altri stati europei e, soprattutto, rispetto al prossimo tentativo della Catalogna di dichiararsi indipendente, che la Spagna non potrà più reprimere come fece nel 2017. Ma, dal punto di vista storico e del dispiegamento della cittadinanza europea sancito nel Trattato di Lisbona, il dato più importante è che il caso catalano ha contribuito ad accelerare il progetto costituzionale europeo, tanto da aprire lo spazio alla difesa dei diritti individuali di tutti gli europei ma, ha anche contribuito a risolvere problemi simili al catalano, in una cornice più democratica e aperta di quella che hanno solitamente gli stati membri.

 

Il riconoscimento della minoranza

 

In tale contesto assume particolare rilievo la sentenza C-158/21 emessa dalla TGUE il 31 gennaio 2023. In risposta alla richiesta del giudice spagnolo di estradizione dal Belgio del ministro della Cultura in esilio, Lluís Puig, la Corte chiarirà che non si dovrà estradare una persona se si ha il sospetto che, anche in uno stato formalmente democratico, ci sia discriminazione contro persone che appartengono a un “gruppo oggettivamente identificabile”. E cioè, una minoranza; in questo caso una minoranza nazionale, e in alcuni altri casi religiosa, linguistica, sessuale o di qualsiasi altro tipo.

 

Come spiegato da Neus Torbisco e Nico Krisch, quando la Corte di Giustizia dell’Unione Europea fu chiamata dalla Corte Suprema spagnola a trattare una serie di questioni pregiudiziali relative a Lluís Puig, dovette fare una scelta fondamentale. Poteva indossare il cappello dell’integrazione europea, un cappello che ha indossato per gran parte della sua esistenza, eliminando frontiere e ostacoli ingiustificati tra stati membri dell’UE. Oppure –e questa fu la scelta– poteva indossare il cappello costituzionale. È un cappello più nuovo, rafforzato dalla Carta dei diritti fondamentali e dal Trattato di Lisbona dei primi anni del 2000. È il cappello di un tribunale che verifica l’operato dei governi e dei tribunali ordinari statali, di un tribunale che difende i diritti individuali contro la ragion di stato, di un tribunale che permette la protezione delle minoranze e dei gruppi vulnerabili contro i rischi obiettivi dei diritti dei suoi membri sorti dalle compulsioni autoritarie o repressive delle maggioranze potenti. In sostanza, la funzione di tutela che giustifica il ruolo centrale che hanno le corti costituzionali ovunque.

 

Il salto che è stato fatto con questa sentenza è molto importante, sia per la Catalogna che per l’Europa. Fino ad ora, i tribunali potevano solo opporsi alla persecuzione di persone sulla base di fallimenti sistemici, come in Polonia o in Ungheria. Ma, d’ora in poi, i tribunali dovranno anche respingere la persecuzione delle persone che fanno parte di un “gruppo oggettivamente identificabile” di persone nel caso in cui, pur vivendo in uno stato funzionalmente democratico, non vedano i propri diritti rispettati in modo paritario. La democrazia etnica, che è il concetto che meglio definisce ciò che è la Spagna, implica per definizione che il comportamento dello Stato è diverso, non a causa dei fatti che si verificano, ma a causa della condizione nazionale, etnica e di gruppo degli individui coinvolti. E la Corte, in questa storica sentenza, si è assunta la responsabilità di ammonire che ciò è del tutto inaccettabile nel quadro democratico e giuridico europeo.

 

Ora la domanda è come fare un ulteriore passo in avanti. Come può questo “gruppo di persone oggettivamente identificabili” risolvere il problema della discriminazione a cui è sottoposto? E quale responsabilità ha l’Europa per porre fine a questa discriminazione quando lo Stato membro dell’Unione che discrimina non vuole fare nulla al riguardo? Il diritto di ciascuno stato prevale sui diritti dei cittadini europei o l’esistenza della cittadinanza europea obbliga le istituzioni europee a garantire gli stessi diritti a tutti, indipendentemente dallo stato di origine?

 

Gli interessi della “costruzione nazionale” europea e del processo indipendentista catalano vanno di pari passo per rispondere a questa domanda. Ed è per questo che il processo di indipendenza catalano è anche un’opportunità, un’opportunità impareggiabile, per la democrazia europea.

 

* traduzione  Àngels Fita – AncItalia

https://www.vilaweb.cat/noticies/la-independencia-de-catalunya-una-gran-oportunitat-democratica-per-a-europa/

 

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