Puigdemont: «Ho nostalgia della mia patria, ma non smetto di lottare dall’esilio per la Catalogna libera. Il mio arresto in Sardegna? L’Italia è stata impeccabile»
Il leader indipendentista, che esattamente quattro anni fa ha dovuto lasciate la sua città e ora vive in Belgio, parla della sua battaglia, di Madrid e di doppi standard europei: «Perché sulla Polonia Bruxelles è inflessibile e sulla Spagna non dice nulla?»
di Pietro Guastamacchia – Vincenzo Genovese
Quattro anni di esilio oggi, quattro anni lontano dalla Catalogna e dalla sua Girona, unica parola in grado di strappargli un sorriso. Carles Puigdemont, il leader catalano che nell’ottobre 2017 sfidò Madrid con la dichiarazione di indipendenza, vive in Belgio da allora e grazie all’elezione al Parlamento europeo si batte per tenere viva a livello internazionale la causa dell’indipendenza catalana. Per lui tornare a casa da uomo libero ora come ora è impossibile. Gode di immunità parlamentare, tecnicamente sospesa da un voto dell’Eurocamera, ma che di fatto per ora gli ha consentito di muoversi in tutta Europa. Se mettesse piede nel suo Paese però verrebbe arrestato all’istante. La Spagna, infatti, non ha dimenticato l’affronto e la magistratura di Madrid continua a rincorrerlo, come dimostra l’ultimo tentativo di arresto in Sardegna, con un mandato internazionale eseguito dalla procura di Alghero lo scorso 23 settembre. Nonostante il suo italiano invidiabile, risponde alle domande in catalano, non potrebbe essere altrimenti, rendere la sua lingua uno degli idiomi ufficiali dell’Ue è infatti una delle battaglie che gli sta più a cuore.
Le pesa la prospettiva di non poter tornare a casa?
«Mi manca Girona, è una delle città più belle del mondo. Però io non sono un nostalgico. Mi sento europeo e mi sento a casa mia a Bruxelles. Lotto per l’idea che in questa Europa unita le nazioni storiche possano essere riconosciute come tali, lotto affinché la mia lingua e la mia cultura possano essere riconosciute e parlate in questo Parlamento, cosa che ora non accade».
L’obiettivo della permanenza a Bruxelles e dell’elezione all’Europarlamento era la cosiddetta internazionalizzazione della questione catalana: portare cioè le istanze indipendentiste nelle cancellerie di tutta Europa e cercare alleanze fuori dalla Spagna. A che punto è questo processo?
«Credo che la questione catalana sia oggi più complessa e sofisticata di quattro anni fa. Il nostro obiettivo era aumentare il grado di conoscenza del nostro dossier in Europa. Bisogna ringraziare anche lo stato spagnolo, per averci aiutato in questo processo, perché attraverso le diverse iniziative prese per impedire la nostra libertà, come deputati e come cittadini, ci ha aiutato a rendere più nota la nostra situazione».
C’è forse più chiarezza sulla questione catalana, ma l’appoggio all’indipendentismo resta scarso sul piano internazionale. Nessun governo dell’Unione europea ha apertamente messo in dubbio le ragioni della Spagna e le istituzioni dell’Ue hanno sempre considerato la cosa come un affare interno di Madrid. Puigdemont, assieme a Toni Comín e Clara Ponsatí, altri due esponenti politici catalani in esilio, siede infatti al Parlamento europeo nel gruppo dei Non Iscritti. Lo scorso marzo, il resto dei colleghi non esitarono a togliere loro l’immunità, con 400 voti a favore su 693 presenti. Quattro anni fa, durante e dopo il referendum voluto dal suo governo, ma mai riconosciuto dalle autorità spagnole, per le strade della Catalogna le imponenti manifestazioni separatiste incontravano i reparti della Guardia Civil. Davanti al ritorno di un vecchio problema come l’indipendentismo, la Spagna scelse una vecchia ricetta: la repressione. Le immagini delle violenze fecero il giro del continente.
Si aspettava più solidarietà in Europa?
«L’avevamo detto che il silenzio dell’Unione europea di fronte agli abusi dello stato spagnolo, la repressione e la violenza della polizia e la giustizia altamente politicizzata, avrebbe avuto conseguenze per l’Unione europea stessa. Oggi infatti, l’Ue è debole e manca di autorità morale per esigere il rispetto dello Stato di diritto da Polonia, Ungheria o da chissà quali altri Paesi in futuro, e questo perché non ha trattato tutti allo stesso modo. Questo doppio standard è uno dei gravi problemi che ha la democrazia europea. Tutti devono essere trattati allo stesso modo, si chiamino Polonia o Spagna. Io sono d’accordo sul fatto che la Commissione europea sia rigida con la Polonia. Ma perché con la Polonia sì e la Spagna no?».
Il riferimento allo scontro che domina in questi giorni il dibattito comunitario tra la Polonia e la Commissione europea è chiaro, i polacchi sostengono che il loro diritto nazionale non possa essere sottomesso a quello comunitario. Commissione e Parlamento europeo ritengono il Tribunale costituzionale polacco infiltrato dal potere politico e, pertanto, le sue decisioni illegittime. Crede che la situazione sia paragonabile a quanto accade, o è accaduto, in Spagna?
«Non sono un esperto del caso polacco e quindi non faccio paragoni. Ma so che la situazione del popolo catalano è gravissima. Il tribunale costituzionale spagnolo, chiaramente politicizzato, grazie a una maggioranza di membri scelti dal Partido Popular, ha annullato una legge approvata dal parlamento catalano e da quello spagnolo, quella dello Statuto del 2006. Ciò che succede in Spagna è molto lontano dall’essere un esempio del rispetto dello Stato di diritto. Io sono un eurodeputato e ho immunità per viaggiare liberamente per tutta Europa, tranne che in Spagna. La Spagna, quindi, non sta rispettando un’immunità garantita in tutta Europa».
Nel suo ultimo viaggio ad Alghero in molti si sono chiesti se cercasse contatti in Italia o addirittura sponde con l’indipendentismo sardo. È così?
«Non ho mai cercato di italianizzare il conflitto tra Spagna e Catalogna. Sono stato sempre molto cauto e rispettoso della politica interna italiana, perché questo non è un affare che riguarda l’Italia. Il comportamento delle istituzioni italiane è stato impeccabile. Lo Stato spagnolo ha tentato di coinvolgere un altro Paese, come già aveva fatto in precedenza con la Germania, il Belgio, il Regno Unito e la Svizzera».
In Catalogna la questione dell’indipendentismo si riaccende ciclicamente. Di solito succede d’autunno: nell’ottobre 2019 migliaia di persone bloccarono l’aeroporto di Barcellona dopo la notizia delle sentenze ai politici coinvolti nel tentativo secessionista, poi usciti di prigione, grazie all’indulto governativo. Nel settembre 2020 il successore di Puigdemont alla guida della Generalitat, Quim Torra, fu destituito dalla magistratura per aver esposto al palazzo presidenziale uno striscione dal significato politico in periodo elettorale. Torra definì la sentenza un golpe e chiamò i catalani alla disobbedienza civile, ma le manifestazioni furono frenate in parte dalle restrizioni per il Covid19.
Si aprirà un’altra stagione di proteste?
«Dopo quattro anni una cosa è chiara: la persistenza del movimento indipendentista catalano e la presenza di un conflitto politico irrisolto. Tutte le azioni di repressione non sono servite a risolverlo, dopo quattro anni continuiamo ad avere la maggioranza assoluta al parlamento della Catalogna e la volontà maggioritaria del popolo catalano di poter decidere il proprio futuro».
Nel 2017 al governo in Spagna c’era la destra guidata da Mariano Rajoy, con cui i rapporti sono sempre stati pessimi. Oggi invece alla Moncloa c’è Pedro Sánchez e al governo un partito socialista più aperto al confronto. Tra l’attuale Generalitat e l’esecutivo centrale di Madrid c’è un processo di riavvicinamento che si chiama mesa de diálogo (tavolo di dialogo) ed è stato pensato per portare a un compromesso pacifico. Funzionerà?
«Io sono sempre stato favorevole al negoziato. Quattro anni fa, ho sospeso gli effetti della dichiarazione di indipendenza per aprire una porta alla trattativa con la Spagna. Non è mai successo nulla. Bisogna essere realisti: se in quattro anni lo stato spagnolo non ha negoziato mai niente, allora non ha senso negoziare in Catalogna. Per noi, la porta è sempre aperta a un negoziato vero, per la risoluzione del conflitto. La domanda è: la Spagna è disposta a farlo? Finora non lo è mai stata».