Puidgemont: “In Catalogna non è cambiato nulla, ci vuole il referendum”
Indipendentismo. L’ex presidente e alfiere dell’autonomia è candidato alle prossime elezioni regionali dall’autoesilio in Belgio; più che nelle urne spera che il Parlamento europeo non gli revochi l’immunità: “Tornerò in Spagna”
- di RQuotidiano
Il 7 gennaio una corte d’appello belga ha rifiutato di consegnare alle autorità spagnole Lluís Puig, confermando la decisione dell’estate scorsa. L’ex consigliere alla Cultura della Catalogna si era rifugiato in Belgio insieme a dei colleghi nel 2017, dopo la “dichiarazione unilaterale di indipendenza” della regione spagnola. Mentre si avvicinano le elezioni in Catalogna, previste per il 14 febbraio, e rinviate al 30 maggio per la pandemia, per il più celebre degli esiliati politici catalani, Carles Puigdemont, ormai parlamentare europeo, la prospettiva dell’estradizione sembra dunque allontanarsi.
Come ha reagito alla decisione del tribunale che blocca l’estradizione di Lluís Puig?
È una decisione definitiva poiché il procuratore belga ha deciso di non andare in cassazione. Mostra che la strategia politico-legale che lo Stato spagnolo ha messo in atto da più di tre anni contro di noi è fallita. ‘Game over’. Il processo di Lluís Puig rientra nella stessa procedura che riguarda me e il mio consigliere alla Salute dell’epoca, Toni Comín. Tutti e tre siamo stati convocati davanti al giudice in prima istanza, ma io e Comín avevamo invocato il nostro statuto di eurodeputati. Il giudice aveva deciso dunque di confermare il mandato d’arresto contro Puig e di sospendere la procedura contro di me e Comín. Ciò significa che, anche se il Parlamento europeo dovesse revocare la nostra immunità, il tribunale prenderà nei nostri confronti la stessa decisione presa per Puig.
Ma su di lei pesano accuse più gravi, inclusa la “sedizione”…
Innanzi tutto, la decisione della corte tedesca dello Schleswig-Holstein, nel 2018, diventata definitiva perché la Spagna non ha fatto appello, stabilisce che non c’è stata né ribellione né sedizione. Dal canto loro, le autorità belghe considerano che, se Puig fosse rimpatriato in Spagna, i suoi diritti fondamentali sarebbero minacciati e in particolare la presunzione di innocenza. Il tribunale si è basato sulle conclusioni del gruppo di lavoro delle Nazioni Unite contro la detenzione arbitraria: hanno stabilito che, viste le dichiarazioni di certi politici e membri della procura spagnola, che danno per scontato la nostra colpevolezza, non avremmo un processo equo in Spagna.
I giudici hanno inoltre ritenuto che la Corte suprema che si occupa del nostro caso che ha sede a Madrid, mentre i fatti sono accaduti in Catalogna, non è competente. Questo vale per Puig, ma anche per me e per Comín.
Si ritiene soddisfatto?
Uno degli obiettivi che ci eravamo fissati quando abbiamo scelto l’esilio è stato raggiunto: poterci difendere in un contesto che tutelasse pienamente i nostri diritti. Il prossimo obiettivo è far uscire di prigione i prigionieri politici, che hanno subito persecuzioni.
Il 14 gennaio si è aperto al Parlamento Ue il dibattito sulla revoca della vostra immunità, prima del voto in plenaria. La perdita dell’immunità appare possibile. La sentenza su Puig cambia le regole del gioco?
Sono dibattiti diversi. La decisione del PUe è politica. La delegazione spagnola è molto potente all’interno del Partito popolare europeo e dei socialdemocratici, ma anche nel Gruppo dei conservatori e riformisti europei, che conta deputati di Vox, il partito neofranchista che ha avviato la procedura d’accusa popolare contro gli indipendentisti catalani durante il processo. È chiaro che la delegazione spagnola non intende perdere. Il nostro obiettivo è ricordare che siamo oggetto di una persecuzione politica che punta a impedirci di svolgere il nostro mandato di eurodeputati. In sostanza, al Parlamento viene chiesta l’autorizzazione di metterci in prigione. I deputati devono sapere che non avremo un giudizio equo e giusto in Spagna.
Ma, lei dice che, pur in caso di revoca dell’immunità, la giurisprudenza belga ormai vi protegge…
Certo. Ma è importante che il PUe invii un segnale politico forte alla Spagna: non è così che si risolve un problema politico.
Nel 2017, al momento della dichiarazione unilaterale di indipendenza del governo catalano, contavate sul sostegno di alcuni responsabili europei, ma vi siete ritrovati isolati. La situazione è cambiata da allora?
A essere onesti, nel 2017, non pensavamo di trovare alleati nell’Ue. È un club di Stati: sapevamo che avrebbero sostenuto ufficialmente la posizione della Spagna. Invece il silenzio dell’Ue di fronte alla violenza della polizia spagnola contro persone innocenti e pacifiche, durante il referendum del 1 ottobre 2017, è stata una vergogna storica. Non dico che l’Europa debba sostenere la causa catalana, ma avrebbe potuto condannare violenze inaccettabili così come, a ragione, condanna quelle in Bielorussia. Pensavo che la Convenzione dei diritti fondamentali dell’Ue ci avrebbe protetto, ma sbagliavo.
La coalizione di sinistra di Pedro Sánchez e Unidas Podemos al governo, segna una rottura nel modo in cui Madrid gestisce la questione catalana?
Niente affatto. Non c’è stata una sola parola di perdono. Né un solo dibattito parlamentare sull’abolizione di questo delitto del XIX secolo che si chiama sedizione, né sulla legge sull’amnistia. Certo, il clima è un po’ cambiato, ma nei fatti con un governo della destra Pp saremmo allo stesso punto.
Eppure è stato dato il via ad una riforma per modificare l’accusa di “sedizione”.
È solo propaganda. Dove sta la legge? C’è stato forse un dibattito in Parlamento? La sedizione oggi è un delitto assurdo. Non esiste più nella maggior parte dei paesi d’Europa, a eccezione dell’Irlanda, ma l’ultima condanna per sedizione risale a un secolo fa…
Oriol Junqueras (Erc), in prigione dal 2017, ex vicepresidente della Catalogna quando lei era al governo, ripete che, prima di organizzare un nuovo referendum, bisogna ampliare la base degli indipendentisti, che oggi non pesa neanche il 50%…
Oggi abbiamo il 47,5% dei voti nel Parlamento catalano e una maggioranza parlamentare in numero di seggi. L’unico modo per confermare la base è indire un referendum. Il nostro dell’ottobre 2017 è stato violentemente ostacolato dal governo spagnolo.
Ma noi abbiamo considerato che fosse valido e che bisognava procedere alla dichiarazione d’indipendenza. Condivido l’idea che dobbiamo dimostrare che siamo più del 50% a volere l’indipendenza. Ma la questione è un’altra: cosa faremo quando supereremo il 50%? Tutti i partiti spagnoli hanno già detto che anche con il 60 o 70% i nostri diritti ci sarebbero negati. Abbiamo un muro di fronte a noi e dobbiamo essere pronti a…
Disobbedire?
A demolire quel muro.
Se le elezioni del 14 febbraio saranno mantenute in Catalogna, la campagna si concentrerà sulla gestione della pandemia e non sull’indipendenza e sui prigionieri. È un problema per il campo indipendentista?
È normale perché l’epidemia pone delle sfide difficili per il presente e il futuro. Ma ci mostra anche, drammaticamente, cosa significa dipendere dalla monarchia spagnola. Non abbiamo avuto le risorse per aiutare i lavoratori autonomi e le piccole e medie imprese, come è stato fatto in altri paesi.
Ma la salute è una competenza regionale in Spagna…
Solo su carta. Quasi il 95% delle tasse della Catalogna vanno allo Stato. Quindi, bene le competenze, ma senza soldi come si fa? La Catalogna rappresenta il 19% del Pil spagnolo e non possiamo neanche gestire il fondo europeo, di cui le Pmi avrebbero bisogno.
C’è chi la critica per una forma di ‘caudillismo’ e per la personalizzazione a oltranza del dibattito sull’indipendenza da Bruxelles…
Mi criticano se continuo a battermi e mi criticherebbero pure se decidessi di ritirarmi. Lo scopo è di impedirmi di fare politica. Ma non sono andato in esilio per farmi una vacanza.
L’idea è sempre di tornare in Catalogna?
Certo. Ogni giorno mi sveglio dicendomi che sarà l’ultimo giorno di esilio. Ma so anche che potrei passare qui il resto della mia vita.