Non c’è confronto
“Consideriamo ora l’ipotesi che l’arresto di alcune persone a causa della lingua fosse avvenuto ovunque in Spagna ma non nel Montana”
Vilaweb.cat – Joan Ramon Resina – 07.12.2020
Il 24 novembre, una causa intentata dall’American Civil Liberties Union (A.C.L.U.) per conto di Martha Hernández e Ana Susa contro la polizia doganale degli Stati Uniti, la U.S. Customs and Border Protection Agency, si è risolta con un accordo transattivo tra le parti e l’agenzia federale ha pagato una certa somma di denaro all’accusa per ritirare la denuncia.
Cosa era successo perché l’A.C.L.U. l’avesse posta? Il 16 maggio 2018, Hernández e Susa, residenti di Havre, un piccolo paese del Montana a 56 chilometri dalla frontiera con il Canada, erano in fila alla cassa di un negozio dove avevano appena acquistato latte e uova. Dietro di loro, Paul O’Neill, un agente della polizia di frontiera, attendeva il propprio turno per pagare una bottiglia d’acqua. Le due donne parlavano tra di loro in spagnolo e O’Neill chiese da dove provenissero. Risposero che erano di Havre e lui chiese dove erano nate. Una rispose in Texas e l’altra in California. Il poliziotto commentò il loro accento e chiese loro di identificarsi. Gli mostrarono la patente di guida, che negli Stati Uniti ha lo stesso valore della carta di identità.
Una delle donne ebbe la precauzione di registrare l’incontro, senza che il poliziotto si opponesse. La registrazione mostra che l’agente si rivolge a loro in tono neutro, professionale. Durante la deposizione nella sede dell’A.C.L.U., O’Neill disse che le donne le avevano risposto in tono agitato e sarcastico, leggermente provocatorio. Quando gli domandarono perché avesse chiesto loro di identificarsi, rispose che le aveva sentite parlare in spagnolo e questo era molto raro da quelle parti. Dopo un pò, il superiore di O’Neill si presentò in negozio e le arrestate chiesero se, in caso di aver parlato in francese, le avrebbero fermate. L’ufficiale admise di no (recordiamo che ciò capitava vicino al confine con il Canada).
La denuncia dell’A.C.L.U. accusava O’Neill de discriminare Hernández e Susa delegando alla lingua l’applicazione di un profilo razziale. Sosteneva che l’agente avesse violato il Quarto emendamento della costituzione e il diritto di entrambe le donne ad avere la stessa protezione davanti alla legge, un diritto garantito dall’emendamento quattordici. Il quarto emendamento afferma il diritto alla sicurezza delle persone, delle loro case e degli effetti contro perquisizioni e confische senza probabile causa. O’Neill aveva goffamente applicato il concetto di causa probabile, violando almeno il quarto emendamento. Il fatto di parlare in spagnolo tra di loro non constituiva un indizio razionale del fatto che fossero immigranti illegali. D’altra parte, l’accusa di razzismo per procura linguistica era più discutibile. O’Neill lo aveva negato quando Hernández e Susa, violentate dall’interrogatorio, lo avevano accusato di applicare un approccio razziale. L’argomento del agente era statistico: è molto inusuale –disse– che la gente parli spagnolo da queste parti. Tuttavia, in nessun caso l’improbabilità può essere una scusa per discriminare. Così come ha ricordato l’A.C.L.U., quaranta milioni di cittadini americani parlano spagnolo in famiglia. Il fatto che due cittadine lo parlino in qualsiasi parte del paese non può mai essere un motivo ragionevole per un arresto. Al massimo, il dato demografico poteva essere solo un attenuante. Ma sfortunatamente per O’Neill, l’inchiesta rilevò che faceva parte di un gruppo di agenti che facevano commenti negativi su Facebook contro i latini e, sebbene nessuna opinione ostile poteva essere attribuita personalmente a lui, la partecipazione in questo gruppo le si voltò contro. Il caso stava diventando pessimo per la Border Patrol e l’accordo transattivo era la via di uscita più discreta.
Il lettore deve aver già capito perché ho trovato interessante presentare un caso che, senza dubbio, riceverà l’applauso di molti spagnoli, non per la tutela dei diritti negli Stati Uniti, ma perché lo considereranno una vittoria nella loro crociata sulla lingua. Durante una visita all’Università di Berkeley nel settembre del 1987, …, l’ormai emerito re Juan Carlos I parlò sul diritto di quel stato (si potrebbe dire che si intromise), dove nel novembre precedente la lingua inglese era diventata la lingua ufficiale con l’approvazione della Proposition 63. Senza arrossire e alludendo a un inesistente conflitto linguistico in California, il re disse che in Spagna questi conflitti erano già stati superati. Negli anni a venire, avrebbe proclamato che la lingua spagnola non era mai stata imposta da nessuna parte. E’ interessante sottolineare che Juan Carlos I criticava l’ufficializzazione dell’inglese non perché difendesse il multilinguismo in uno stato in cui molte più lingue sono parlate nell’ambiente familiare, ma lo faceva perché riteneva che istituire il primato della realtà fosse dannoso per la lingua spagnola. Insistendo ancora, nel 1991 la casa reale assegnò il premio “letterario” Principe delle Asturie all’isola di Puerto Rico per aver dichiarato la lingua spagnola ufficiale malgrado si trovi sotto la sovranità degli Stati Uniti. Il governo americano non colse questa provocazione in quanto gli Stati Uniti sono un paese pragmatico e, allora, non avevano nemmeno una lingua ufficiale su scala federale.
L’anno scorso, il Congresso americano ha approvato il disegno di legge H.R. 997, l’English Language Unity Act, con il quale l’inglese è stato adottato come lingua ufficiale per le funzioni di governo e allo scopo di richiedere la cittadinanza, in modo che tutti i cittadini potessero comprendere le leggi. Il disegno di legge specifica una serie di eccezioni, compresi i procedimenti giudiziari. La nuova legge non avrà alcun effetto sulle azioni volte a tutelare i diritti delle vittime o degli imputati nei procedimenti penali. Cioè, i querelanti e gli imputati potranno partecipare nella lingua che parlano. Lo status ufficiale dell’inglese non può essere interpretato in modo da vietare la comunicazione non ufficiale di membri del governo in qualsiasi lingua anche nell’esercizio delle funzioni ufficiali. La legge non può essere invocata per limitare la conservazione delle lingue dei nativi americani, obbligo richiesto dal Native American Language Act. Né può essere invocata per screditare qualsiasi lingua o per dissuadere dall’apprendimento o dall’uso di qualsiasi lingua.
Si noti che questo disegno di legge, introdotto e approvato durante la legislatura di Donald Trump con il sostegno bicamerale, non prevede l’imposizione dell’inglese, già dichiarato ufficiale dal governo americano. Nel “paese di Trump”, come negli ultimi anni alcuni giornalisti poco zelanti amavano chiamare gli Stati Uniti, -con la stessa giustificazione avrebbero potuto chiamare “paese di Paperino” o “paese di Marilyn Monroe”-, la decisione di rendere ufficiale la lingua in cui la costituzione è redatta e con cui si è leggiferato lungo la loro storia non ha alcuna conseguenza nella vita civile. Anzi, la stessa legge preserva le libertà linguistiche e protegge le lingue indigene.
Confrontatelo ora con il trattamento che il catalano riceve nello stato spagnolo, anche nei territori in cui il catalano è co-ufficiale. Ricordate se, aparte una vaga allusione ad “altre” lingue spagnole nella Constitución,
sia mai stata creata alcuna legge o agenzia specifica per garantirne la conservazione. Considerate se la monarchia costituzionale che, secondo il re, negli anni 80 aveva risolto il problema secolare della persecuzione linguistica, ha fatto mai qualcosa per depenalizzarne l’uso senza garantirne, però, l’inviolabilità nemmeno nei territori dove esse sono ufficiali. Ricordate gli attacchi al governo catalano per aver annunciato sanzioni, raramente comminate, agli essercizi commerciali che non osservassero la regola di scrivere le insegne in catalano, o la guerra implacabile contro l’immersione linguistica, gli ostacoli alla legge sul doppiaggio di una piccola parte del cinema importato, il disprezzo diffuso per il catalano e l’ostilità verso chi parla questa lingua o l’ostruzionismo di partiti, associazioni professionali e istituzioni pubbliche nell’uso del catalano nei rispettivi ambiti di attività. E concludete il confronto soppesando il fatto che, in California, come in altri stati, la conoscenza dello spagnolo è considerata un vantaggio in molte professioni senza che nessuno definisca questo vantaggio una discriminazione. Tutt’altro, è lo stimolo principale per l’apprendimento di questa lingua nelle scuole e nelle università.
Ora consideriamo l’ipotesi che l’arresto di alcune persone per motivi linguistici sia avvenuto ovunque in Spagna e non nel Montana. Che il poliziotto sia stato un agente della Guardia Civile e le donne importunate parlassero la lingua catalana. Si tratta di un caso ipotetico, perché mai un poliziotto spagnolo ha disturbato nessuno per il fatto di parlare catalano, nè mai l’hanno denunciato per mancanza di rispetto, resistenza all’autorità o agressione per mezzo della lingua. Niente di tutto questo è successo e ogni somiglianza con la realtà è pura coincidenza, vero?. Ma fate un esercizio accademico puramente speculativo e immaginate che un agente spagnolo, con l’atteggiamento neutro e rispettoso di O’Neill, interrogasse due donne catalane con voce tranquilla ed equanime, senza minacce nè alzate di voce. Senza sgridarle dicendo: siamo in Spagna e qui si parla spagnolo. Valutate le circostanze, la rarità della lingua catalana in qualsiasi parte delle Asturie o dell’Andalusia, aggiungete tutti gli attenuanti che volete, per quanto improbabili, e ora ditemi se la Guardia Civil avrebbe la possibilità di ricevere una denuncia e di perdere la causa. Se qualche tribunale avrebbe mai l’equanimità o il coraggio di imporre la stessa protezione della legge in favore di una persona catalano parlante contro i criteri di un ente statale. Se mai la “benemerita” guardia civil o qualsiasi altra agenzia statale è stata condannata per trattamento discriminatorio o vessatorio nei confronti di un catalano parlante. E facciamo una riflessione ancora più straziante, se mai alcuna organizzazione civile spagnola ha investito le sue risorse e la sua passione democratica nella difesa legale delle vittime della discriminazione linguistica di una minoranza dello Stato.
La domanda è retorica? E io rispondo: certo che lo è!! Tanto retorico come dire che la Spagna è uno stato di diritto o mettere in dubbio che “il paese di Trump” non lo sia. Il confronto è abusivo. Le parole nascondono qualità incommensurabili. O come dicono quelli che, poveri di lingua, usano lo “slang” spagnolo per esprimersi: non c’è confronto.
* traduzione Àngels Fita – AncItalia