Cuori catalani al tempo del coronavirus
Lluís Cabasés
E’ un periodo, a differenza di altri, che non intervengo molto nelle diverse chat che noi catalani abbiamo su Whatsapp o su Telegram, ma ciò non toglie che le legga in continuazione. Vedo un gruppo di persone solidali che, mettendo a nudo i propri sentimenti e la propria quotidianità, danno il senso di un popolo unito, di un grande paese che in quelle chat trova la piazza del borgo o del barri, il quartiere della città, da dove è emigrato in Italia. Oggi la foto di una truita de patates, la nostra frittata tipica uova e patate (e chi vuole pure con la cipolla) mi ha dato buon umore e una spinta per farla. Del resto in questi giorni ci si accontenta col piacere di essere consapevoli che, con poco, si possono avere intime e golose soddisfazioni.
Ma in queste chat ci sono anche appelli, segnalazioni, pezzi di solidarietà che navigano nella rete da una parte all’altra del Mediterraneo. Spesso c’è anche un po’ di ansia per famiglie divise nella quarantena, non più unite dal basso costo dei voli e dalla vicinanza tra un aeroporto e l’altro. Ecco quindi che si dipana un campionario di affetti, racconti, battute, foto, video, ricordi insomma, che cementano l’unione , le amicizie, la germanor (la fratellanza) dei catalani.
Ma uscendo dalle chat nostre, navigando su Twitter o su Facebook diventa ancora più pesante leggere quanti odiatori da tastiera sfogano ancora il loro livore verso i catalani che, in questo momento storico, avrebbero il diritto di godere, come tutti, della solidarietà altrui.
Allora dobbiamo, oggi più che mai, essere stoicamente responsabili e il più possibile indifferenti a prese di posizione che in altri paesi sarebbero già state bloccate o punite. E’ un invito, in fondo, ad essere positivi e a girare la testa verso situazioni che alleviano il momento che viviamo. Forti, per essere più forti con la nostra República.
Ognuno in questi giorni è sensibile, quasi sopraffatto, dalle sensazioni che un’immagine può dare. La sensibilità aumenta in modo direttamente proporzionale al numero di giorni passati in questa quarantena così reale e tangibile, una quarantena che fino a qualche settimana fa non avremmo mai immaginato di dover affrontare.
Una su tutte: pensate alle foto dei medici di Cuba che hanno lasciato il proprio paese per venire ad aiutare gli italiani. So che quelle immagini hanno provocato molta emozione a qualcuno di noi, vedere quelle bandiere cubane che assomigliano molto alla nostra estelada independentista sono state una
iniezione di ottimismo per comprendere che non tutto è perduto e che non sono solo soldi e mercato a farla da padrone. Tutto nel segno della solidarietà internazionale, secondo il lemma che “la mia patria è l’umanità intera”, dove i confini del cuore e della ragione delle persone vengono superati da un approccio che ricorda molto quello della Catalunya degli anni Trenta, all’epoca dei presidenti Macià e Companys, un periodo dove la persona era al centro del progetto politico e sociale d’un gran País.
Cajilla, il soprannome del fratello di mio nonno, è il ricordo più remoto che ho di Cuba. Partì da Alcarras, nel Segrià di Lleida, per fare il marinaio nella guerra contro gli Stati Uniti del 1899. Aveva vent’anni e non tornò per raccontarlo.
Nei giorni scorsi qualcuno ha sentito di nuovo risuonare havaneres…
Lluís Cabasés