Osservatorio settimanale
CRONACA DEL PROCESSO AGLI INDIPENDENTISTI CATALANI / 17
«Non ci sono prigionieri politici. Non si perseguono idee e opinioni, oggetto di questo processo è la rottura dell’ordine costituzionale»: inizia così, come a giustificarsi, il pubblico ministero Javier Zaragoza, nella prima delle quattro requisitorie dell’accusa pubblica, nella diciassettesima settimana del processo alla leadership indipendentista catalana. Il suo intervento di un’ora è una sorta d’introduzione a quello dei suoi colleghi, con cui si è alternato negli interrogatori nei quattro mesi di dibattimento. Un ragionamento tutto politico che prende a prestito il linguaggio della destra spagnola quando afferma che «quello che successe in Catalunya tra il marzo del 2015 e l’ottobre del 2017 è un golpe di Stato. Questo è il procés, un pronunciamento civile contro la Costituzione, con l’utilizzazione della violenza quando necessario e il contributo dei Mossos d’Esquadra». Il magistrato conferma l’imputazione di ribellione per 9 delle 12 persone accusate, in carcere da oltre un anno, perché «era un attacco contro l’ordine costituzionale, non contro l’ordine pubblico, che ricadrebbe nella fattispecie del reato di sedizione». Quindi enumera per titoli quelle che considera prove: accordi del 2015, tabelle di marcia dell’Assemblea Nacional Catalana, il documento Enfocats di cui non si è chiarita la provenienza e l’agendina moleskine, entrambi ritrovati nell’appartamento di Josep María Jové, braccio destro dell’ex-vicepresidente della Generalitat Oriol Junqueras. Per riproporre il teorema dei tre pilastri attorno cui si sarebbe costruita la ribellione: il Parlamento, il Governo e la mobilitazione popolare animata dall’associazionismo indipendentista. Ove Junqueras «era il motore principale», anche perché Carles Puigdemont è in esilio a Bruxelles; Jordi Cuixart e Jordi Sánchez «erano i signori dell’ordine pubblico a Barcellona» e i Mossos usavano a pretesto la salvaguardia della convivenza cittadina «per facilitare la celebrazione del referendum».
Gli fa seguito la requisitoria del collega Jaime Moreno che, nel suo intervento, cerca di dimostrare che nell’autunno catalano ci fu violenza. Il concetto di violenza che propone è amplissimo, con una fondatezza giuridica quanto meno discutibile. «Ci fu violenza fisica», sostiene il magistrato, come dimostrano non solo i 93 agenti di polizia che risultarono contusi l’1 ottobre, ma anche i circa 1000 votanti rimasti feriti ai seggi, la cui responsabilità ricade sugli imputati, che fecero appello ad andare a votare. Ma ci fu anche «intimidazione» con la grande presenza di gente ai seggi, «un atto di ostacolo intimidatorio e violento» alle forze dell’ordine che dovevano eseguire il mandato giudiziario. Quindi, per rafforzare la tesi secondo cui gli imputati strumentalizzarono la violenza per il fine ultimo del referendum, il magistrato propone un elenco di loro tweet in cui si incitava al voto. «Si è provato che dal 19 settembre all’1 ottobre ci fu una violenza sufficiente – conclude Moreno – senza la quale non si sarebbe fatto il referendum. Gli imputati conoscevano il rischio di incidenti e ciò nonostante spronavano la gente ad andare a votare».
Il pubblico ministero Fidel Catena concentra invece la sua prolusione sul delitto di ribellione. Secondo l’art. 472 del codice penale spagnolo sono imputati di ribellione «coloro che si sollevino violentemente e pubblicamente» per uno dei fini indicati, tra cui «dichiarare l’indipendenza di una parte del territorio nazionale». Ma secondo il magistrato perché ci sia ribellione non è necessaria la violenza fisica, né l’uso delle armi. Perché è sufficiente «una moltitudine disposta a utilizzare la violenza». «Anche la resistenza è violenza» – continua Catena – com’è successo ai seggi, ove una moltitudine si è opposta alla polizia per impedirle di eseguire l’ordine giudiziario. L’importante è che essa «sia efficace nel ledere il bene giuridico protetto che è l’ordine costituzionale». E il delitto si consuma non appena si avvia il processo «anche se il risultato non è completamente raggiunto», e dunque anche se la dichiarazione d’indipendenza non ebbe alcun effetto giuridico. «Il procés è pluriconvergente, ossia plurale e convergente verso un unico obiettivo. Le azioni individuali si diluiscono in un’azione comune: sono tutti coautori» conclude Catena, confermando la richiesta iniziale delle pene: 25 anni per Oriol Junqueras, 17 anni per l’ex-presidente del parlament Carme Forcadell e per l’ex-leader dell’ANC Jordi Sánchez e il presidente di Òmnium Jordi Cuixart, 16 anni per gli ex-consiglieri Dolors Bassa, Quim Forn, Raül Romeva, Josep Rull, Jordi Turull, tutti in prigione da oltre un anno, tutti accusati di ribellione e, nel caso degli ex-componenti del govern, anche di distrazione di fondi pubblici; 7 anni per gli ex-consiglieri Meritxell Borràs, Carles Mundó e Santi Vila, in libertà condizionata, imputati di disobbedienza e distrazione di fondi pubblici.
La requisitoria della magistrata Consuelo Madrigal è tutta sul reato di distrazione di fondi pubblici. Secondo la rappresentante del pubblico ministero, le risorse pubbliche destinate alla celebrazione del referendum ammonterebbero a tre milioni di euro. Madrigal taccia la Generalitat di essere «un’organizzazione criminale», perché «la Generalitat fu pregiudicata da queste condotte, il fatto che non si sia costituita in propria difesa, dimostra il controllo che ancora esercitano gli imputati sull’amministrazione catalana». Nel caso degli imputati di ribellione la distrazione è ancora più grave, conclude la magistrata, perché «non solo agisce in pregiudizio dell’amministrazione pubblica, ma è anche un grave attacco alla democrazia spagnola, alla mercè del processo di sollevazione violenta che si è discusso in questa causa».
Dopo quattro ore di arringhe del pubblico ministero è la volta dell’Avvocatura dello Stato, rappresentata dall’avvocata Rosa María Seoane e dell’accusa popolare, con gli avvocati esponenti di Vox, Pedro Fernández e Javier Ortega Smith.
L’avvocata dello Stato conferma l’imputazione di sedizione per le nove persone in regime di carcerazione preventiva. E lo fa ricostruendo l’impianto probatorio sulla base dei tre pilastri già osservati: l’attività parlamentare, quella del governo, la mobilitazione popolare. Ma accetta la sfida del pubblico ministero e spiega perché, a parere dell’Avvocatura, si tratti di sedizione e non di ribellione. «Il delitto di sedizione è un delitto plurioffensivo, perché riguarda l’ordine pubblico, il principio di autorità, il rispetto delle risoluzioni dell’autorità, l’attuazione della legge», spiega Seoane. «La ribellione presuppone una sollevazione pubblica e violenta, la sedizione sottende una sollevazione pubblica e tumultuosa», continua. E se è vero che la violenza non necessariamente dev’essere fisica, deve comunque essere vera e «non si può equiparare la violenza all’uso della forza». E conclude: «Non possiamo considerare provato che la violenza sia stata uno degli elementi strutturali per realizzare il progetto indipendentista».