"Il presidente catalano Torra, a me non piace"

«Torra suscita odio nella misura in cui è percepito come una estensione di Puigdemont.»
Vilaweb.cat – Joan Ramon Resina –  07.04.2019
https://www.vilaweb.cat/noticies/torra-opinio-joan-ramon-resina/
Reunión semanal del gobierno catalán
 
Pochi giorni fa parlavo con un’amica di Madrid che, senza essere indipendentista, è molto critica con lo stato spagnolo. In mezzo a un’appassionata difesa della specificità catalana, aveva fatto un inciso per chiarire che non le piace il presidente Torra. Siccome so che non lo conosce se non attraverso la stampa, il commento, lasciato cadere lì per lì senza motivo, mi era parso un riflesso difensivo. Come per mettere un limite alla sua difesa della catalanità. Noi catalani siamo abituati a questo tipo di precisazioni, perché le abbiamo molto praticate. Prima della sua caduta, Jordi Pujol era servito da parafulmini a molti. Si poteva difendere l’identità o rivendicare qualche diritto e, nel momento del pericolo, sviare il previsibile affronto verso il capro espiatorio simbolico. Con questo, ci si proclamava ‘non vittimista’. Ricordo un dibattito con un collega gallego, il quale, di fronte a un vicolo cieco dialettico, mi propose un armistizio: ‘Fraga è uno stronzo e Pujol è uno stronzo.’ Questa era la tregua che molti accettavano durante la transizione. Equiparando il repressore al represso in una perversa equidistanza, cancellavano la piccola differenza della repressione.
 
Il metodo del capro espiatorio funziona indipendentemente da chi farà da talismano. Il riflesso è universale. Per coglierne il meccanismo basti considerarlo in sé stessi. Non mi sono mai piaciuti Felipe González nè Alfonso Guerra, ma neanche José Luis Rodríguez Zapatero, José Bono, Rodríguez Ibarra, Joaquín Almunia, Pérez Rubalcaba, Susana Díaz, Pedro Sánchez, Josep Borrell… Ora che ci penso, non mi è mai piaciuto un socialista spagnolo. E tra quelli catalani, faccio fatica a ricordare qualcuno che mi sia piaciuto. Se sono sincero, devo riconoscere che ogni volta che giudico la personalità di un politico, non faccio altro che constatare la mia posizione politica. Mi definisco per le mie avversioni, tanto o più che per le mie sintonie. E siccome non mi piace l’ideologia né l’attività di un determinato partito, non possono piacermi quelli che le rappresentano. Così come il PSC, nei tempi della prosperità, si vantavano di poter mettere un sofà da capo lista e comunque, tutti li avrebbero votato, io posso dire di me stesso che, se mettevano uno sofà, non mi sarebbe dispiaciuto meno degli altri che avevano presentato prima. Perché, in politica, più che in altri campi pubblici, la persona è il messaggio, e il messaggio è immancabilmente quello che richiamano i media.
 
Quim Torra non piace ad alcuni per motivi diversi. Alcuni riguardano la frammentazione elettorale. Trattandosi di un politico senza un partito dietro, l’inoperatività che una parte dell’indipendentismo gli attribuisce è perfettamente descrivibile. Un politico ha la forza che gli danno gli elettori, e Torra non solo non è stato eletto, ma gli stessi che si rivolgono a lui chiedendo azione sembrano determinati a indebolirlo ancor più di quanto non lo sia già per via dell’eccezionalità del parlamento catalano attuale. Nemmeno Puigdemont era stato eletto, ma ancora disponeva di un partito o dell’apparenza di un partito. E soprattutto, non è la stessa cosa cavalcare l’onda di entusiasmo che portava verso il referendum piuttosto che resistere in piedi dentro la risacca del 155. E’ molto difficile governare tra le esigenze dello stato, le necessità amministrative di un’autonomia saccheggiata e il mandato delle elezioni che molti vorrebbero dimenticare. Dovendo anche gestire tutta questa complessità senza unanimità nel governo, con un’opposizione selvaggia, un partito frammentato e discolo, una stampa molto ostile e i soci di governo che non si prendono neanche il disturbo di dissimulare la fretta di allontanarlo per cercare altre alleanze. Da quando la Generalitat è stata restituita, nessun altro presidente ha dovuto governare in condizioni tanto precarie. Accusarlo di questo dimostra una grande incoscienza e molta poca consistenza.
 
Torra suscita odio nella misura in cui è percepito come una estensione di Puigdemont. La nomina di Torra non solo riuscì a permettere di rompere la morsa dello stato e di aggirare il bloccaggio del parlamento catalano. L’offesa era più grande ancora per il fatto che il presidente assumeva esplicitamente il mandato del 21-D. Chiedendogli di rendere conto di questa responsabilità, esercitata con più volontà che fortuna, quelli che gli impediscono di soddisfarla. Ma il rifiuto che provoca Quim Torra, pur se molto mitigato nel commento della mia amica, resta specialmente nell’epiteto ‘suprematista’, lanciato nel momento dell’investitura e ripetuto come un emblema fino a farlo diventare un’associazione automatica.
 
Malgrado la inettitudine descrittiva dell’aggettivo, la scelta è tuttavia interessante. Soprattutto perché considerare il luogo d’illocuzione rende evidente un’inversione arbitraria della correlazione di forze. Il suprematismo presuppone il potere. Suprematista è chi difende un diritto innato o acquisito per esercitarlo su altre persone. Può esserlo chi domina, non certo chi lotta per abolire la dominazione. In realtà, l’inversione semantica era avvenuta già da tempo. Molto prima dell’investitura del 131° presidente, si parlava di catalanismo escludente con quella sincerità con la quale la volpe si lamenta dell’animosità delle galline.
 
La disfatta dell’unionismo nel 21 Dicembre 2017 faceva prevedere l’intensificazione dell’attacco, e con il superamento del bloccaggio del parlamento catalano con una persona di fiducia di Puigdemont, l’amplificazione della guerra sporca era di facile pronostico. Il pretesto, in questo caso, fu un vecchio articolo dissotterrato con straordinaria diligenza, dal quale si estrassero alcune dure parole senza precisare il contesto né l’occasione. E dalla legittima indignazione per la condotta di un energumeno in un caso scandaloso, che qualsiasi persona decente avrebbe condannato, ne fecero un’interpretazione distorta con il fine di ridurre Torra alla stessa aggressività di quelli che si vantavano di avere decapitato l’indipendentismo. E molti, con il riflesso descritto all’inizio, si sono aggiunti alla condanna senza prestare attenzione che la propaganda faceva con Torra quello che loro accusavano in lui: disumanizzarlo. Come un Gregor Samsa che si sveglia dall’investitura convertito in uno scarafaggio, Torra si ritrovò incastrato quell’epiteto malevolo, come il povero Gregor la mela lanciatale da suo padre sul dorso.
 
Perché suprematista precisamente? Tranne l’uso espletivo della parola, l’unica spiegazione con parvenza di realtà è il terribile complesso di inferiorità degli spagnoli, rovescio della loro proverbiale arroganza. Il Lazarillo de Tormes è tuttora il testo più incisivo sulla psicologia castigliana. L’hidalgo affamato, che esce sulla soglia di casa con uno stuzzicadenti in bocca per far vedere che ha mangiato di gusto, era andato via da Valladolid per non doversi togliere il cappello davanti a un vicino di rango superiore. Tuttavia, confessa che quello stesso vicino le restituiva il saluto, ma considera che non lo faceva così spesso e che la bilancia dell’onore era a lui contraria. La scena testimonia il rapporto tra la fame dello stomaco e quella del riconoscimento, e di come il vuoto è lo stesso in entrambi i casi. ‘Vanità’ viene da vanus, ‘vuoto’. L’autore anonimo ci mostra che la fame fisica è più sopportabile di quella dello spirito, e che quest’ultima infligge ferite psicologiche inguaribili.
Gli spagnoli arrivarono alla transizione con un grave complesso di inferiorità. La chiave del successo del socialismo alla fine degli anni 80 e inizio dei 90, fu quella di mitigare quel complesso con un’inflazione non soltanto dell’economia ma anche della psicologia nazionale. Allora si riprodusse in minore scala lo stesso fenomeno del XVI secolo. Verso la fine degli 80 e fino alla crisi del 2007, gli spagnoli si consideravano eguali se non addirittura superiori alla media degli europei. Ricordate Zapatero assicurando, quattro giorni prima della crisi, che la Spagna aveva superato la Francia, l’Italia e che stava incalzando la Germania? Gli improduttivi spagnoli si vantavano di essere competitivi; lo stato entrava in tutte le contese per i posti con influenza internazionale; la Spagna, dicevano, era di moda. E tutto era un confronto tra Madrid e Barcellona; l’obiettivo patetico, eliminare la capitale catalana come riferimento della modernità peninsulare. Il complesso, lungamente covato, venne “curato” con investimenti faraonici a Madrid e dintorni mentre si congelavano le cose più essenziali in Catalogna. Si creava immagine con treni di alta velocità senza passeggeri, autostrade gratuite vuote, aeroporti senza aerei, eventi di centenari di ogni tipo, ambasciate palatine, e sempre corruzione a tutti i livelli, fino a quando a forza di centralizzare e saccheggiare tutto, aggravarono lo squilibrio fiscale che preparò la crisi finanziaria del 2007 e quella politica del 2017.
 
Ora, il rovescio di ogni inflazione è la deflazione. Siccome sotto a tutti questi cambiamenti cosmetici, gli spagnoli seguitavano ad essere lo stesso popolo, non potevano smettere di sentire intimamente il vuoto progressivo di quella modernità e democrazia iperboliche. Né potevano smettere di notare, malgrado le apparenze, che la distanza non solo persisteva ma si allargava tra loro e l’Europa del nord. La realtà si impose con la crisi, quando gli spagnoli si risvegliarono dalla festa indebitati fino al collo. Allora uscirono un’altra volta sulla soglia di casa con lo stuzzicadenti in bocca, tra i denti puliti. Questi sono i favori concessi ad altri paesi da García-Margallo e la raddoppiata spesa in immagine del ministro Borrell.
 
Al doloroso vuoto dello stomaco si aggiunse l’umiliazione di comprovare che la Catalogna ritornava. Il morso mal digerito lottava per scappare tra i denti. Ogni rapporto di potere è una deviazione più o meno civilizzata del rapporto primario tra vittima e predatore, che è quello di mangiare e di essere mangiato. La volontà della Catalogna di sottrarsi a questo rapporto aggrava straordinariamente la fame spagnola. Ne indebolisce la sostanza e ne dimagrisce ancora di più la malconcia hidalguía. E siccome nessuno accetta tranquillamente la propria deflazione, in particolare i collettivi che si sono elevati inflazionariamente, la reazione naturale è cercare di sbarazzarsi della sensazione di ‘sottovalutazione’, come veniva chiamato da Américo Castro il dramma esistenziale degli spagnoli. E questo possono farlo soltanto trasferendola a qualcun altro.
 
Il sentimento di valere di meno non è facile da sopportare e la conclusione a la quale suole arrivare chi lo subisce è che, per forza, deve avere una causa esterna. Altri sono colpevoli della deflazione, e sono altri quelli che la aggravano rifiutandosi di condividerla e allargando numericamente il cerchio della vergogna. Peggio: sono colpevoli di rifiutarsi di assumere una parte più grande del deprezzamento, servitù che ci consolerebbe nella misura in cui venisse scaricato il nostro. Il rifiuto di accettare questo ruolo trasferitore giustifica l’epiteto di suprematista, perché con quale diritto ignora ora la forza della nostra maggioranza qualcuno che sempre abbiamo disprezzato? Se le circostanze non ci permettono di sottovalutarlo tanto quanto ci sottovalutiamo noi stessi, bisognerà disprezzarlo fino a togliergli ogni valore. Allora potremo stropicciarlo come un abito vecchio e consunto che si butta nella spazzatura.
 
traduzione  Àngels Fita-AncItalia
 
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