Osservatorio settimanale
09/03/2019 – di Elena Marisol Brandolini
CRONACA DEL PROCESSO AGLI INDIPENDENTISTI CATALANI / 4
«Alle 16,30 ci fu una specie di tumulto fuori perché Junqueras stava entrando nell’edificio»: riporta così l’arrivo del vicepresidente della Generalitat Motserrat del Toro, secretaria judicial del Tribunale n. 13 di Barcellona che, il 20 settembre 2017, accompagnò la Guardia Civil nella perquisizione del dipartimento di Economia.
Nel corso della sua testimonianza al Tribunal Supremo nel processo contro l’indipendentismo catalano, Motserrat abbonda di espressioni con la parola “tumulto” per riferirsi alla moltitudine di persone concentrata davanti alla Consiglieria. «Alle 18,30 si sentiva dal megafono una voce femminile che identificai con quella di Forcadell», dichiara. Anche se le finestre dell’edificio erano chiuse e, soprattutto, se quel giorno l’allora presidente del Parlamento si limitò a passare alla manifestazione senza fare alcun discorso dal palco improvvisato.
Motserrat è una testimone chiave dell’accusa, perché con lei iniziò tutto in quel 20 di settembre. Perché si disse che la presenza di una concentrazione così ingente di persone le aveva reso impossibile uscire la sera dalla stessa porta da cui era entrata al mattino, obbligandola a dileguarsi in incognito attraverso i tetti. Lo racconta alla Corte, ammettendo di avere avuto paura, e si apprende che non si trattava di un tetto ma di una terrazza e di un muretto di un metro di altezza da superare con l’aiuto di otto Mossos in borghese, per raggiungere il teatro dell’edifico a fianco da cui uscire senza dare nell’occhio. Anche se la sua fisionomia non era nota, tanto che chiede ancora oggi che la sua immagine non sia diffusa per televisione. E anche se davanti alla porta i volontari della Assemblea Nacional Catalana avevano organizzato un corridoio per permettere il transito delle autorità. Però fu allora che cominciarono i primi “suggerimenti” sulla stampa di un possibile delitto di sedizione che avrebbe portato in carcere, un mese dopo, i leader sociali dell’indipendentismo, Jordi Sánchez e Jordi Cuixart.
Il resto della settimana è stato occupato da altre testimonianze di rilievo, meno spettacolari di quelle dei politici dei giorni precedenti ma interessanti per la loro narrazione, opposta a quella degli imputati e a ciò che in quei giorni la stampa di tutto il mondo potè vedere e riportare. Come due verità parallele che non s’incontrano. Quella del pubblico ministero e dei suoi testimoni è tesa a dimostrare che ci fu violenza nelle mobilitazioni di massa aizzate da leader sociali e politici per sovvertire l’ordine costituzionale, con la complicità della polizia catalana: solo così, infatti, reggono le accuse di ribellione e sedizione. Anche se non ci sono prove di una violenza generalizzata ma, al più, singoli e limitati episodi, frutto spesso di percezioni o di racconti di terzi.
Tra gli ultimi politici a intervenire, il presidente del Parlamento catalano Roger Torrent ed Enric Millo, allora delegato del Governo spagnolo in Catalunya.
Millo racconta di come dall’8 settembre del 2017 «cominciò in Catalunya un clima di ostilità e intimidazione» nei confronti delle azioni della polizia giudiziaria; alcune di queste manifestazioni avevano «una evidente componente violenta». Parla di «scontri tra manifestanti e polizia in alcuni collegi» avvenuti il 1 ottobre, di persone che aggredirono i poliziotti. La sua descrizione si sofferma sulla genesi della violenza in seno ai manifestanti, ma scivola sul fairy, un detersivo per lavare i piatti a mano che, secondo Millo, i manifestanti avrebbero usato come arma, spargendolo per terra a mo’ di “trappola” per i poliziotti.
Più ficcanti le testimonianze di José Antonio Nieto e del colonnello della Guardia Civil Diego Pérez de los Cobos, che all’epoca ricoprivano le cariche rispettivamente di segretario di Stato al ministero degli Interni e di coordinatore delle forze di polizia per il 1 ottobre. Sono loro i profeti dell’impianto accusatorio, loro che decisero d’inviare in Catalunya un contingente di 6000 unità tra Policia Nacional e Guardia Civil e che ne coordinarono l’intervento sul terreno.
A ogni perquisizione della polizia «c’era una reazione della gente che ci fece pensare che ci fosse dietro un’organizzazione», sostiene Nieto. «L’allineamento alla Generalitat dei Mossos e del major Trapero era totale», spiega, scaricando sui Mossos, «disinteressati a coordinarsi per evitare il referendum», la responsabilità per l’intervento esclusivo e solitario delle polizie spagnole ai collegi. Ci furono aggressioni di manifestanti nei confronti di poliziotti concentrati davanti ai collegi «non solo per votare ma anche per impedire alla polizia di intervenire», ma «non si produssero cariche della polizia».
De los Cobos è ancora più netto nel puntare il dito sulla responsabilità della polizia catalana: «L’attitudine dei Mossos fu di un’assoluta passività. In alcuni casi andò oltre e arrivò a impedirci d’intervenire». Per de los Cobos, la contrarietà del major Trapero ad averlo come coordinatore non riguardava solo «un tema di competenza ma era anche finalizzata a mettere il bastone tra le ruote», perché «non si poteva utlizzare come scusa la salvaguardia della convivenza per impedire l’intervento contro il referendum». «Vedemmo gente incappucciata e intenta ad allertare i votanti per impedire l’intervento della polizia. Vi era aggressività di gruppo. Non ci furono interventi contro i votanti, ma contro quelli che cercavano d’impedire la nostra azione. Non ci fu nessuna carica della polizia».
I collegi chiusi dalle polizie spagnole furono 113, si utilizzò la forza in un centinaio e i poliziotti contusi furono 120, secondo i dati riferiti da Sebastián Trapote e Ángel Gonzalo, comandanti in Catalunya per il 1 ottobre, rispettivamente della Policia Nacional e della Guardia Civil.
A testimoniare, nel mezzo, un gruppo di professionisti che, in quel periodo, avevano prestato servizi di pubblicità alla Generalitat. Tutti negano di essere stati pagati per le loro prestazioni, confermando di averne abbuonato il credito.