Osservatorio settimanale
02/03/2019 – di Elena Marisol Brandolini
CRONACA DEL PROCESSO AGLI INDIPENDENTISTI CATALANI / 3
«Non passerete! E se passerete quando tutti avremo smesso di vivere, saprete d’avanzo a che prezzo si abbatte un popolo degno e libero. Ma non avverrà! Per molto che facciate, non passerete!»: planano queste versi dello scrittore e musicista catalano Apel-les Mestres nella Sala del Tribunal Supremo, nella terza settimana del processo contro l’indipendentismo catalano. Un poema scritto durante la prima guerra mondiale e poi recuperato dalla resistenza repubblicana contro Franco, nella guerra civile spagnola.
Li recita Jordi Cuixart nell’originale catalano nel corso della sua deposizione, perché nell’atto di accusa della Procura generale gli viene contestato l’uso dello slogan “No pasarán” come indizio di un delitto di ribellione, per cui vengono richiesti 17 anni di carcere. E planano in piazza a Barcellona, davanti alla sede di Òmnium Cultural di cui Cuixart è presidente, tra la gente assiepata davanti a uno schermo.
Cuixart è in prigione da 500 giorni per aver organizzato, assieme a Jordi Sánchez, la manifestazione pacifica e di massa del 20 settembre 2017 davanti al Dipartimento di Economia a Barcellona, in protesta contro l’entrata della polizia spagnola negli edifici della Generalitat. Rivendica la sua identità di leader sociale: «Sono un prigioniero politico, non un politico prigioniero». E aggiunge: «Prima del 16 ottobre a me e a Sánchez non ci conosceva nessuno, quando ci avete messo in prigione ci avete convertito in referenti sociali». «L’obiettivo di Òmnium – prosegue – è rafforzare la democrazia e mai rinunceremo all’espressione dei diritti fondamentali». Il referendum dell’1 di ottobre «è stato il più grande atto di disobbedienza civile in Europa», perché «il diritto di sciopero si vince scioperando, il diritto a manifestare si vince manifestando e il diritto a votare in Catalogna si vince votando».
L’ultimo interrogatorio è di Carme Forcadell che nell’autunno 2017 era presidente del Parlamento catalano. Anche lei, accusata di ribellione e in prigione dal marzo 2018, è colpita da una richiesta di pena di 17 anni di carcere. La sua deposizione insiste sulle prerogative di un Parlamento. «La presidenza non ha la potestà di valutare il contenuto degli atti parlamentari, altrimenti si converte in un organo censorio» ribatte all’accusa di aver consentito il passaggio in Parlamento delle proposte di legge sul referendum e sul regime transitorio poi impugnate dal Tribunal Constitucional. «Nel Parlamento si deve poter parlare di tutto – insiste –. L’unico limite al dibattito parlamentare è il rispetto dei diritti umani». Nelle sue funzioni di presidente non godeva di nessun voto particolare: «Perciò non capisco perché io sono interrogata da questo tribunale, mentre i miei compagni di presidenza verranno processati in Catalogna, con l’accusa di disobbedienza».
Nei due giorni successivi è il turno dei testimoni, i primi a sfilare sono i politici. Ed è la prima volta in cui anche l’estrema destra di Vox fa domande, perché i testimoni non possono rifiutarsi di rispondere. Quando Antonio Baños e Eulalia Reguant, ex-deputati della Candidatura d’Unitat Popular, dichiarano di non voler rispondere all’accusa popolare «per dignità democratica e anti-fascista», il presidente della Corte Manuel Marchena li rinvia al giudice di turno, che commina loro una multa di 2.500 euro.
A sfilare è mezzo Governo spagnolo in carica all’epoca dei fatti. L’allora presidente Mariano Rajoy insiste nel mantra secondo cui «Non ci fu nessun referendum» e «sul referendum non ci fu mai nulla di cui parlare». «Mi cercarono in molti allora, ma non ci fu nessun mediatore» afferma. Salvo essere smentito il giorno dopo dal lehendakari (presidente del Governo della Comunità autonoma dei Paesi Baschi) Iñigo Urkullu, che riferisce invece dei numerosi incontri e conversazioni con Rajoy e Carles Puigdemont, nel tentativo di stabilire un dialogo tra i Governi spagnolo e catalano. «Mai il presidente del Governo spagnolo può liquidare la Costituzione e la sovranità nazionale» insiste Rajoy e scarica la responsabilità di tutto sugli indipendentisti: «Se non si fosse convocata la gente a un referendum illegale non avremmo visto queste immagini» commenta dopo la proiezione di un video sulle cariche della polizia spagnola in un collegio elettorale. «Mi occupavo della gestione politica. Sul dispositivo di sicurezza parlavo con la vicepresidente» conclude Rajoy.
Ma anche l’ex-vicepresidente Soraya Sáenz de Santamaría nega di essere intervenuta sul dispositivo di sicurezza, rinviandolo alla responsabilità del Ministero degli Interni. Mentre usa parole simili a quelle degli scritti dell’accusa, parlando dell’esistenza di una «muraglia umana e lancio di oggetti che stavano impedendo il compimento del mandato giudiziario».
Neppure l’ex-ministro degli interni Juan Ignacio Zoido riesce a chiarire chi ordinò le cariche della polizia nella mattina del 1 ottobre, né soprattutto chi le fece interrompere nel pomeriggio, ma afferma che «l’uso della forza fu razionale e proporzionato».
L’ex-ministro delle Finanze Cristóbal Montoro, in relazione all’accusa di distrazione di risorse pubbliche, ammette che «tutti i fondi della Generalitat erano soggetti a controllo dello Stato dal settembre 2017», ma, aggiunge, «non si può mai escludere del tutto l’assenza di frode e per questo ci sono le indagini giudiziarie e della polizia».
Tra i testimoni sfilano deputati ed ex-parlamentari di Esquerra Republicana, di Podemos, ex-presidenti del Parlamento catalano, l’ex-presidente della Generalitat Artur Mas, funzionari della Generalitat indagati altrove nella macro-causa contro l’indipendentismo, spezzettata tra Tribunal Supremo, Audiencia Nacional, Tribunale n. 13 di Barcellona. Ci sono fatti oggetto d’indagine anche nel Tribunale n. 7 di Barcellona, dove il Comune si è costituito come accusa popolare contro la violenza della polizia spagnola il 1 ottobre, come spiega la sindaca Ada Colau, dopo aver dichiarato che «l’1 ottobre fu della gente, di migliaia di persone auto-organizzate», una mobilitazione pacifica e di massa, di cui le cariche della polizia alterarono il carattere.