Vilaweb.cat – Marta Rojals – 25.02.2019
Domenica scorsa, nella stessa mattinata in cui il presidente spagnolo Pedro Sánchez deponeva fiori monarchici sulla tomba del poeta Machado (fervido repubblicano), e alla stessa ora in cui la truppa de la presidentessa del partito Ciudadanos, Sig.ra Arrimadas, scherniva gli esiliati a Waterloo, io ero in visita presso uno spazio dove –rischio, dài– né il presidente spagnolo né il capo dell’opposizione del parlamento, non hanno mai messo piede: il Museo Memoriale dell’Esilio, che si trova nel municipio di la Jonquera (n.d.t. a ridosso del confine con la Francia).
A meno che non si possieda un cuore di pietra, è davvero difficile uscire da una visita come questa senza restarne colpito. Il percorso trasmette vivamente il trauma della diaspora repubblicana, documenta l’esperienza dell’esilio e culmina con l’eredità politica, scientifica e culturale che ci ha lasciato. Ma lo shock continua al di là della mostra perché, dal punto di vista politico, e salve le distanze del cambiamento epocale, i collegamenti con la situazione attuale vengono da sé.
Una de le conclusioni è che tutte le scuole dovrebbero visitarlo ma, ovviamente, l’insegnante che si azzardasse a proporre una cosa del genere, vista l’esperienza post-1 di Ottobre (quando alcuni insegnanti furono denunciati per aver discusso sulla giornata del referendum in classe), dovrà essere pronto a ricevere la censura relativa. Salvando le distanze, ancora, con gli insegnanti denunciati in tempi passati: perché oggi, se restringono la tua libertà accademica senza depurarti o, ancora meglio, senza condannarti penalmente, è un privilegio che gli indipendentisti non sanno apprezzare né ringraziare come si deve.
Torno un istante al museo per estrarne una citazione bianca scritta su un muro nero: ‘”La libertà vive lontano da qui, e ciò è l’esilio”, Il re Lear, William Shakespeare (1564-1616).’ Ci torno perché la definizione è tanto precisa quanto senza tempo, trattando questo articolo sul corso del tempo. Guarda se potrebbe essere facile, con una frase così semplice da capire –’la libertà vive lontano da qui’–, dissipare i dubbi di quelli che si rifiutano di riconoscere gli esiliati catalani di questo nuovo secolo. Negazionisti che non sono solo Arrimadas, né altri eredi dei vincitori della guerra civile, e non bisogna spostarsi agli estremi per ascoltare una Mónica Oltra (sinistra-verdi) parlando di ‘soldoni’ di Puigdemont, o un Miquel Iceta (socialista) riducendo la condizione del presidente al capriccio di una persona che “ha deciso di andarsene”. E questo è così perché la disumanizzazione degli indipendentisti è trasversale in tutto lo spettro spagnolista, uno spagnolismo per il quale il dolore dell’avversario sembra troppo poco.
A loro pare poco il dolore di concittadini –politici, rapper, attivisti– che, per non aver voluto confrontarsi con loro civilmente, hanno visto che la loro libertà viveva lontano da qui. Sembra poco il dolore di attraversare la frontiera senza data di ritorno perché non sono andati via con scarpe di cartone e con i bambini in braccio. A loro pare poco il dolore di lasciare indietro la propria casa, il proprio paesaggio, la lingua delle proprie strade, perché non è avvenuto sotto il fischio mortale degli spari e delle bombe. E’ troppo poco dolore, per i loro gusti, mangiare tre volte al giorno lontano indefinitamente dai tuoi, perché non soffri la fame come ottant’anni fa, né disagi come a 3.000 km. a est. Quale trappola, utilizzare un’ingiustizia per giustificare l’altra: è come dire: eh! europea, europeo, basta di piagnucolare per i diritti x, y e z, che nel medioevo o in Somalia per molto meno ti avrebbero già lapidato.
Per lo spagnolismo mainstream, il fatto che alcuni abbiano cercato la libertà presso democrazie avanzate è tutto fuorché esilio, aggrappati all’argomento fallace che la maggior parte degli indipendentisti non hanno fatto le valigie. Quale diritto abbiamo di lamentarci quando questa maggioranza nostra, alla peggio, potrebbe leggere comodamente in poltrona le citazioni giudiziarie: raccontaglielo a Tamara Carrasco (agli arresti domiciliari da tempo), agli insegnanti indagati e alle centinaia di processati che sfilano nei tribunali senza tanto rumore mediatico. Stanno perdendosi tutto questo: la ‘persona che decise di andare via’ e gli altri ‘fuggiaschi’. Ah no!, quello che stanno evitando è il carcere.
Non è esilio, è privilegio: questo è il messaggio. Sono cose da privilegiati, e non da esiliati, il fatto di poter inviare delle mail, fare video-conferenze, scambiare whatsapps con la vita rimasta sospesa dall’altra parte dello schermo. Il loro esilio non è considerato per non essere all’antica, per non essere come quello dei musei, per non essere documentato in bianco e nero. Quando tutti sanno che nel secolo XXI, o nel XX, o nel XV, gli eventi più importanti della vita, dai più dolci ai più terribili, non passano per una sessione di Skype.
Soltanto dire il cognome del ministro catalano Comín dovrebbe far tacere trentamila bocche putrefatte (n.d.t. il fratello in fase terminale, si è fatto trasferire in Belgio per poter morire con tutta la famiglia unita accanto a sè).
L’esilio, oggi, qui, è questo: esiliati con il cellulare, computer e biglietti di aereo ma il privilegio ce l’ha qui pretende di negargliene la condizione –fuggiaschi, fuggiti– con l’artificio di un cambio di nome.
traduzione Àngels Fita – AncItalia
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