Catalogna, la crociata della destra contro il movimento indipendentista

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di: Natascia Ronchetti          4 Febbraio 2019

da Barcellona – “I prigionieri golpisti ultranazionalisti partono alla volta di Madrid. Solo poche decine di persone tristi sono venute a salutarli. Bellissimo”. Sono circa le 11 dell’1 febbraio scorso quando viene messo in rete il tweet che accompagna le immagini (riprese da un agente dall’interno del blindato della Guardia Civil) del trasferimento a Madrid, in vista del processo, dei nove esponenti politici catalani arrestati per sedizione, ribellione e malversazione di soldi pubblici dopo il referendum dell’1 ottobre del 2017 sull’indipendenza della Catalogna. Il tweet è emblematico. Manifesta un sentimento di intolleranza abbastanza diffuso in Spagna nei confronti del movimento indipendentista catalano. Un sentimento prepotentemente cavalcato dalla destra. Quella del Partido Popular e di Ciudadanos. E quella dell’estrema destra di Vox. Il partito fondato da Santiago Abascal, dopo aver eletto ben 12 deputati nel Parlamento andaluso, si è anche costituito al processo che inizierà il 12 febbraio davanti al Tribunale Supremo. Lo ha fatto calandosi nei panni dell’accusa popolare. Ha scelto cioè di utilizzare uno strumento previsto dall’ordinamento giudiziario spagnolo, come garanzia contro le connivenze, per fare dell’aula del tribunale il palcoscenico della propria campagna elettorale contro ogni autonomia. Vox, oltre all’indipendentismo catalano, ha altri due nemici dichiarati: le donne e gli immigrati. Vuole una Spagna ultra centralista ma anche anti femminista (ha chiesto l’abolizione della legge sulla violenza di genere), saldamente legata alle tradizioni e chiusa al fenomeno migratorio.
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Uno spot elettorale nel quale Abascal cavalca baldanzosamente alla “riconquista della Spagna” esprime bene l’idea di una parte del Paese che non vuole perdere l’orgoglio di ex potenza coloniale e che conserva nostalgie per il passato franchista: l’ultimo sondaggio sull’orientamento di voto realizzato alla fine di gennaio dal Centro di indagine sociologica ha confermato, del resto, che Vox è in ascesa, con il 6,5% dei consensi a livello nazionale, e che la questione catalana è dirimente, visto che oggi il 36,4% degli spagnoli voterebbe per chi ha preso posizioni radicali contro l’indipendentismo, proprio come Vox e il Partido Popular. “La verità è che il franchismo non è mai morto”, dice Josè Maria Noales Tintorè, giudice istruttore di Badalona, terza città della Catalogna per numero di abitanti. “Tutti noi ci siamo svegliati un giorno – prosegue – scoprendo  che sopravvive ancora”. Lo fa nell’apparato burocratico della pubblica amministrazione. Ma anche, secondo i catalani, in un sistema giudiziario che non è realmente indipendente da quello politico: il procuratore generale del Tribunale supremo è nominato dal governo, l’organismo di autogoverno della magistratura è indicato dal Parlamento.
La dura reazione di Madrid alla dichiarazione di indipendenza all’indomani del referendum (dichiarazione tutta politica e senza valore giuridico), per la Catalogna indipendentista, caratterizzata da un’anima fortemente repubblicana ed europeista, ne è la prova. Così come la repressione, che continua con incriminazioni e arresti, spesso arbitrari, come quello di cui sono state vittime recentemente due sindaci, quelli di Celrà e Verges. “La polizia nazionale mi ha fermato la mattina del 25 gennaio, senza mandato”, ricorda Dani Cornellà, sindaco di Celrà, 5.400 abitanti -. Mi hanno portato nella caserma di Girona, dove era già stato rinchiuso il sindaco di Verges, Ignaci Sabater. Mi accusavano di interruzione di pubblico servizio, perché l’1 ottobre del 2018, per ricordare il referendum, avevo partecipato a una protesta sui binari ferroviari. In realtà l’inchiesta era già stata archiviata, era solo una scusa per intimidirci. Ci hanno liberato solo nel primo pomeriggio, quando hanno deciso che ci avevano spaventato abbastanza. Adesso ci sentiamo tutti minacciati. Le autorità spagnole vogliono metterci sotto pressione anche perché in maggio in Catalogna ci saranno le amministrative per l’elezione dei sindaci e dei consigli comunali: dobbiamo formare le liste elettorali e molti candidati potrebbero tirarsi indietro perché sono intimoriti”. Cornellà è della Cup, il partito della sinistra indipendentista che ha dato l’appoggio esterno al governo della Catalogna, formato da Junts per Catalunya (il partito di Carles Puigdemont, centro destra moderato, esiliato in Belgio) e da Esquerra Republicana, centro sinistra schierato per l’indipendenza. La regione, 7,5 milioni di abitanti, non sembra disposta a chinare la testa: l’80% della popolazione, come rilevano i sondaggi, vuole un nuovo referendum regolare e non crede alle timide aperture dei socialisti di Pedro Sanchez, l’attuale premier, che pure ha riconosciuto l’esistenza di un problema politico.
Il movimento indipendentista è trasversale. Si è organizzato nei Cdr, comitati cittadini per la difesa della Repubblica, naturale prosecuzione dei comitati per il referendum. “Dentro ci sono famiglie, anziani, giovani che si battono per l’indipendenza con una protesta pacifica, ma per la Spagna siamo dei commando”, dice Pat Vila Armanguè. Che i Cdr siano una spina nel fianco del governo centrale lo dimostra il caso di Tamara Carrasco, impiegata. Il 10 aprile del 2018 è stata arrestata da 75 agenti della Guardia Civil che hanno applicato il protocollo anti terrorismo su mandato del tribunale speciale Audiencia National. Tre giorni in cella a Madrid, con la luce sempre accesa per impedirle di dormire, con l’accusa di aver tentato di pianificare un attentato alla caserma di Barcellona della Guardia Civil. “Io faccio parte dei Cdr che, senza alcuna gerarchia, organizzano in rete la protesta”, spiega Tamara. “Mi hanno arrestata per una conversazione telefonica nella quale parlavo di una manifestazione pubblica da promuovere e come prove mi hanno sequestrato un fischietto giallo, una maschera di Jordi Cuixiart (il presidente dell’associazione Omnium che è tra i nove esponenti dell’indipendentismo catalano sotto processo a Madrid, ndr), un poster del referendum, una mappa di Google maps e una medaglia della Cup”. L’impianto accusatorio che faceva di lei una terrorista è crollato in pochi giorni, ma è rimasto l’obbligo di dimora nel suo paese, Viladecans. “Sto aspettando che il Tribunale mandi il fascicolo al mio avvocato, per chiedere la revoca del provvedimento – prosegue Tamara -. Ora soffro di stress post traumatico. Tutta la vicenda è politica, mi hanno arrestata e perseguitata per intimorire tutti.
Il giudice di Madrid mi ha anche detto che la mia libertà dipendeva da quello che facevano i Cdr. Ma quando questa storia sarà finita farò causa allo Stato, per riprendermi la mia dignità”. In tanti ora, in Catalogna, devono difendersi. Deve farlo Jordì Pesarrodona, consigliere comunale di Esquerra Republicana a Sant Joan de Villatorrada, per avere irriso la Guardia Civil indossando un naso da pagliaccio accanto a un agente e per aver difeso le operazioni referendarie dalle violente cariche della polizia. “Disobbedienza grave è il crimine di cui sono stato accusato dalla magistratura di Manresa – dice Pesarrodona -. Il mio gesto è diventato virale e sono stato vittima su Twitter di insulti e minacce di morte. Ma non sarei diventato un caso se così non lo avesse fatto diventare la Guardia Civil, con la sua ossessione per l’onore”. Per disobbedienza devono difendersi i sindaci che hanno permesso il referendum, andando contro la Costituzione spagnola, che prevede che solo il capo del governo lo possa indire. E deve fare i conti con la giustizia anche il giovane Joan Mangues, studente di Scienze politiche, militante di Esquerra Repubblicana, per un twitt sulla morte in circostanze misteriose di un ambulante senegalese. Mangues mostra il filmato di un raduno a Barcellona, il 27 gennaio scorso, dei neofranchisti, per celebrare il giorno in cui le truppe di Francisco Franco fecero capitolare la Catalogna. “Hanno manifestato con il simbolo delle SS – dice -.
Ma il fatto è che vengono applicati due pesi e due misure. Vengono autorizzate le manifestazioni dell’estrema destra mentre le nostre richieste spesso vengono respinte. Tutto si inquadra nella Ley Mordaza, la legge bavaglio voluta dall’ex premier Rajoy, che limita fortemente la libertà di manifestare. Legge contestata dai socialisti, che però ne hanno fatto solo uno strumento di propaganda elettorale: la normativa è ancora lì e siamo al punto di partenza”. Nello scontro tra il movimento indipendentista e Madrid la sinistra di Podemos ha avuto fino ad ora un atteggiamento ambiguo. Una prudenza contestata dall’ex segretario del partito in Catalogna, Albano Dante Fachin, che nei giorni scorsi, con una lettera aperta, ha invitato tutti i militanti a fermare l’avanzata della destra. “Se Podemos non prenderà una posizione forte e chiara, sarà la fine della sinistra”, ha scritto Fachin, per il quale le prove contro gli esponenti politici arrestati, “hanno la stessa credibilità del programma di Ana Rosa Quintane”, giornalista molto contestata dai catalani. Del resto, secondo il giudice Noales Tintorè, davanti alla Corte di Strasburgo l’accusa formulata dalla Procura generale per processare i nove politici catalani, si sgretolerebbe. “Tutti i giuristi – dice Noales Tintorè – sono consapevoli del fatto che a Strasburgo emergerebbe la chiara violazione dei diritti fondamentali dell’individuo”. La natura del conflitto ha, evidentemente, radici economiche.
La Catalogna, regione ricca, rappresenta il 20% del Pil spagnolo e il 25% delle esportazioni totali del Paese. “Una secessione farebbe schizzare al 130% del Pil il debito pubblico spagnolo”, spiega l’economista catalano Josep Reyner Serrà. “Sarebbe un disastro per la Spagna, anche perché potrebbe innescare un effetto domino su altre regioni, come i Paesi baschi. Ma ci sono altre due ragioni profonde. La prima è di carattere identitario: la Spagna ha un concetto di proprietà e la Catalogna è trattata come l’ultima colonia. L’8,5% del Pil va al governo spagnolo, caratterizzato da politiche centriste, e ben poco viene restituito ai catalani per gli investimenti nella scuola, nel sociale, nella sanità. La seconda ragione è tutta politica. Se la Catalogna se ne va si rompe un sistema di potere”.

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