30 novembre 2018 NapoliMonitor.it
Dagli al catalano. Le fragilità del riformismo spagnolo e il capro espiatorio dell’indipendentismo
Ancora una volta tocca rispondere alle narrazioni fortemente di parte di una sinistra che non vuol comprendere il movimento indipendentista catalano e che lo sceglie come capro espiatorio dei limiti ed errori dei governi socialdemocratici dello stato spagnolo. Di recente è uscito un articolo su Micromega dove si dà la colpa al movimento indipendentista catalano (e ai partiti che ne sono emanazione) di decisioni politiche che ancora non sono state prese. È una dinamica ricorrente. L’accusa è semplice, e cito testualmente: “ll governo Sánchez-Unidos Podemos sta varando una finanziaria che, se approvata, metterà fine all’austerità e salvaguarderà il welfare state senza creare tensioni con Bruxelles. Ma c’è lo scoglio degli indipendentisti catalani, il cui voto è decisivo, che minacciano di non sostenere la manovra e mandare il paese a elezioni anticipate”. È veramente così?
Bisogna fare un passo indietro e ricostruire i fatti. Attualmente Pedro Sánchez è il primo ministro di un governo monocolore socialista in Spagna. E non per mandato popolare, tramite elezioni, ma a seguito di una mozione di sfiducia a Mariano Rajoy, ex primo ministro del Partido Popular. Per cacciare Rajoy, si erano riusciti a unire i socialisti, Podemos e i partiti autonomisti e indipendentisti di tutto lo stato: il PNV basco, Coalicion Canaria, ERC e PDeCat catalani. I motivi, semplici: la sua incapacità a gestire la “questione catalana” e i grandi scandali di corruzione a carico del partito, in cui sembrava fosse direttamente implicato.
La mozione di sfiducia ha permesso a Sánchez di diventare primo ministro, con l’appoggio di Unidos Podemos (la coalizione di Izquierda Unida e Podemos). Un primo ministro con un fragile sostegno alla Camera, ma in minoranza al Senato, dove il PP mantiene la maggioranza assoluta. Nel sistema bicamerale spagnolo questa congiuntura rende complessa l’approvazione della legge finanziaria per il 2019, perché il governo del PSOE, anche se con l’appoggio esterno di Podemos, resta un governo di minoranza. Lo stesso accordo è, di per sé, un accordo di minoranza, fatto tra due partiti che cercheranno di farlo votare da quelli che gli hanno dato sostegno in passato.
Anche se il disegno di legge non è ancora stato presentato alla Camera, si parla già di cosa potrebbe succedere al Senato. Nell’ipotesi che la Camera lo approvi, infatti, la presidenza del Senato potrebbe mettere un veto e non discutere il disegno di legge, quindi non approvarlo. Per farlo il PP dovrebbe accordarsi con Ciudadanos (C’s), partito di rigenerazione della destra neoliberale spagnola. Attualmente C’s ha proposto di non imporre un veto e aprire un dibattito sulla finanziaria, ma alla condizione che, se non approvata al Senato, la legge sia approvata di nuovo dalla Camera con una maggioranza ampia, dei tre quinti. Questo porterebbe comunque ad affondare la finanziaria, perché tale maggioranza non si può ottenere senza C’s o PP. È una complessa catena di mosse tattiche, in preparazione alle imminenti elezioni in Andalusia, e alle municipali ed europee del 25 maggio 2019.
Ma invece di spiegare la complessità di questo scenario, l’articolo intraprende una curiosa scelta comunicativa: dare addosso ai catalani. E utilizza tutti gli argomenti: il non veto di Ciudadanos per giustificare la “sicurezza” della finanziaria che si farà; la richiesta di una negoziazione da parte dei partiti indipendentisti, tutt’ora sotto la spada di Damocle della giustizia spagnola; la mancanza di sostegno immediato alla manovra. Tutto viene utilizzato per responsabilizzare gli indipendentisti catalani di non voler “mettere fine all’austerità”, qualunque cosa significhi.
Quando nella narrativa costruita si parla della “minaccia” dei partiti indipendentisti di non approvare la manovra, si forza una lettura faziosa dei fatti (come quando il presidente della Catalogna è definito in “fuga”, sposando la terminologia della destra radicale che non accetta di parlare di esiliati ma di latitanti). L’accordo è solo tra due partiti, ma per la maggioranza ne mancano altri. Inizia quindi la negoziazione, dove ognuno fa le sue proposte e richieste. E non solo i partiti dei catalani, ma anche i valenciani di Compromís (dell’area Podemos, ma nel gruppo misto). Di minaccia allora si potrebbe parlare qualora si giungesse a un accordo, e una delle parti volesse tirarsi indietro. Qui l’accordo è stato siglato da due formazioni politiche senza la partecipazione di nessun altro.
Chi in realtà sta minacciando di far saltare l’accordo è lo stesso PSOE, il partito al governo. Infatti, per la prima volta da quando si è iniziato a parlare di questa “manovra del popolo” Isabel Celaá, portavoce del governo, ha ammesso che il PSOE potrebbe non presentare la finanziaria se le negoziazioni non arrivano a buon fine e se non ottengono l’appoggio della Camera. La cosa porterebbe a due scenari, entrambi complessi: le elezioni anticipate, che potrebbero segnare una nuova vittoria della destra (considerando come sono andate le ultime elezioni del 2016, ripetute, con il PP che manteneva saldo il potere) o una proroga della finanziaria del 2018, fatta anch’essa dal PP e non modificata dal PSOE. Tutto il contrario della manovra del popolo.
Questo scenario non può essere semplificato al punto di non far cenno al tatticismo del PSOE. E invece si cerca un nemico. Se non si può dare la colpa al PP, perché è all’opposizione, ci sono sempre i catalani, i nemici perfetti. Per anni il movimento indipendentista è stato descritto, dalle stesse penne che osannano lo pseudo-riformismo socialista, come un movimento borghese, egoista, nemico del popolo. Si è negato il fatto che sia un movimento interclassista e intergenerazionale, trasversale e animato da molte persone di sinistra, forse più del retorico movimento repubblicano spagnolo, quasi totalmente assente nello scenario politico. E si afferma così che il governo di Sánchez ha compiuto molti sforzi per risolvere il conflitto catalano, menzionando anche un possibile referendum, forse sull’autogoverno, ma non certo sull’autodeterminazione. L’idea del referendum “condiviso” è una proposta riciclata dal PSC (partito socialista catalano), legata a una possibile riforma federale, che sarebbe la ripetizione esatta dello scenario del 2007, quando i protagonisti erano Zapatero e Maragall. Si attribuiscono a Rajoy le decisioni della Procura sui processi che vedono i leader politici catalani accusati di sedizione e disobbedienza per avere organizzato il referendum sull’autodeterminazione del primo ottobre 2017. Salvo affermare, en passant, che la magistratura è indipendente e che quindi Sanchez non può influire sullo svolgimento dei processi in corso. Inoltre, in questi giorni la Commissione europea ha assicurato che questa finanziaria è “fuori rotta” rispetto ai criteri stabiliti da Bruxelles. Ancora una volta, si costruisce una narrazione in cui il PSOE è la panacea per tutti i problemi della Spagna. Cosa che, alla prova dei fatti, non regge.
In questa narrazione manca il punto centrale dell’analisi sullo stato spagnolo. Qui il “progresso” dipende dagli indipendentismi, mentre le ondate repressive-retrograde funzionano in tutto il territorio grazie al PP, Cs e Vox. Non solo a livello parlamentare ma proprio per quel che riguarda concetti democratici come libertà, sovranità popolare e diritti civili. Solo per fare alcuni esempi: la PAH, la Piattaforma per le persone colpite da ipoteca, organizzazione simbolo della lotta per la casa sin dalla crisi del 2008, prende forma in Catalogna; la proibizione delle corride viene approvata dal parlamento catalano a maggioranza indipendentista; i proiettili di gomma, che hanno mutilato molti attivisti dei movimenti sociali, sono stati proibiti dal parlamento catalano (mentre sono tuttora utilizzati nel resto della Spagna). Ovviamente la Catalogna non è una terra promessa, ma risulta difficile negare il fatto che le spinte progressiste che hanno dato forza anche a Podemos si sono sviluppate lì. Basti vedere i risultati delle elezioni del 2016, quando proprio i territori dove la questione nazionale è molto sentita hanno mostrato una chiara opposizione al governo del PP. Ma non solo. Tanto questi risultati, come l’evoluzione dei partiti politici riformisti, mostrano come questi progetti “di cambiamento” siano incapaci di superare il tetto di cristallo della struttura stessa dello stato spagnolo. Allora perché non utilizzare questi indipendentismi come chiave di rottura nazionale e riforma sociale, invece di additarli sistematicamente come nemici del popolo, manipolando la realtà con omissioni, distorsioni e interpretazioni di parte? (victor serri)
Dagli al catalano. Le fragilità del riformismo spagnolo e il capro espiatorio dell’indipendentismo