di Marco Faraci, in Esteri, Quotidiano, atlanticoquotidiano.it del 5 Nov 2018
25 anni per il vicepresidente del deposto governo catalano Oriol Junqueras, 17 per la deposta presidente del parlamento Carme Forcadell e per Jordi Cuixart e Jordi Sanchez, presidenti delle maggiori associazioni culturali catalaniste. 16 anni per gli altri membri del disciolto governo catalano ed 11 per il deposto capo della polizia catalana Josep Trapero, accusato di favoreggiamento.
Sono queste le richieste del pubblico ministero nei confronti dei dirigenti catalani detenuti da un anno, in seguito alla convocazione del referendum per l’indipendenza non autorizzato da Madrid del 1.Ottobre 2017.
Il reato è quello di “ribellione” – un reato in sé “dubbio”, non riconosciuto ad esempio dai sistemi giudiziari dei paesi che si sono trovati a valutare la posizione dei politici rifugiati all’estero e che hanno sistematicamente negato le richieste di estradizione avanzate dalla Spagna.
L’arresto, la detenzione e la richiesta di condanne elevatissime nei confronti di rappresentanti politici ed attivisti culturali che non hanno messo in atto comportamenti violenti sono circostanze eccezionali; al riguardo, però, le classi politiche e le narrazioni mediatiche dell’Europa sono drammaticamente disattente.
Il paradosso è che tutto quel “mondo per bene” che è sempre “sul pezzo” e non ne fa passare una ai “cattivi” del continente, che siano un Orban o un Salvini – quel mondo così sensibile da trovare ovunque ragioni di scandalo e di indignazione, fosse anche in una parola fuori posto – oggi è cieco, sordo e muto, rispetto alle vicende catalane.
Non solo non si riconosce distintamente che la Spagna – la Spagna del PPE, la Spagna del PSE – si sta sempre più trasformando nella “Turchia interna” dell’Unione Europea, ma nemmeno si viene scalfiti – di fronte all’enormità della reazione dello Stato spagnolo – dal minimo dubbio, dalla minima esigenza almeno di approfondire i termini della questione.
Diversamente dai tanti altri casi in cui le leadership europee ritengono un dovere l’ingerenza, la Catalogna viene sistematicamente liquidata come “questione interna” da risolversi secondo le regole della legalità spagnola.
Certo, alcuni fanno notare come uno Stato – qualsiasi Stato – non può esimersi dal muoversi in coerenza con la propria legalità e quindi la reazione del sistema spagnolo non deve suscitare alcuna particolare sorpresa.
Un ragionamento di questo tipo, tuttavia, si limita a spostare il problema.
Se è vero che le richieste di condanna discendono, al di là dei margini interpretativi, dall’attuale legislazione del Regno di Spagna, è altrettanto vero che era probabilmente possibile guidare per tempo il conflitto tra Barcellona e Madrid verso altri possibili sbocchi.
Da quando si è aperta la crisi catalana, a partire dalla questione del nuovo statuto di autonomia del 2005, successivamente “rottamato” dalla Corte Costituzionale, lo Stato spagnolo avrebbe avuto tutto il tempo per creare un percorso costituzionale che consentisse alla volontà maggioritaria dei catalani di esprimersi nell’alveo della piena legalità. Basta pensare alla rapidità con cui democrazie avanzate come il Regno Unito ed il Canada hanno creato le condizioni per un referendum negoziato, a fronte delle richieste provenienti dal governo scozzese e da quello del Québec.
Certo la Costituzione spagnola è più “rigida” di quella canadese o di quella “de facto” britannica, ma se la Spagna in un tempo di solo tre-quattro anni è riuscita a condurre la palingenesi istituzionale che l’ha portata dal regime di Franco alla democrazia, come si può pensare che un lasso di tempo di un decennio non sia stata in grado di creare le condizioni di un “refèrendum pactat”?
Evidentemente poco c’entrano questioni legalistiche e molto invece la totale assenza della volontà politica di riconoscere ed affrontare la questione catalana.
La Spagna ha deliberatamente scelto di impedire che il confronto tra la posizione indipendentista e quella unionista potesse svolgersi sulla base di regole democratiche condivise.
In questo senso la strategia di disobbedienza messa in atto nel 2017 dal governo catalano non è stata il tentativo di mettere in atto una forzatura o una scorciatoia rispetto al normale iter di un processo di riforma; bensì ha rappresentato l’unica possibilità di portare di fronte all’opinione pubblica interna ed internazionale la “questione catalana” a fronte della determinazione dello Stato spagnolo di negare in sé la possibilità di una via democratica alla secessione.
Oggi la gravità della situazione catalana e le sue implicazioni più generali per il modello tradizionale europeo di libertà di espressione e di azione politica sono evidenti per chiunque sia disposto a vederli – e possono al contrario essere negati solamente da chi anteponga considerazioni di quieto vivere politico ai princìpi profondi di libertà democratica su cui la cultura europea del dopoguerra si è basata.
Il vero argomento su cui occorrerebbe convenire è che non è in gioco solo la questione dell’indipendenza della Catalogna o della desiderabilità delle secessioni in generale, ma la questione più ampia di istituzioni che emanino dal basso e che derivino la propria legittimità dal consenso delle popolazioni coinvolte.
Per questo sarebbe necessario operare una pressione sulla Spagna su due piani separati. Il primo è quello di un atto di clemenza nei confronti dei rappresentanti popolari detenuti, motivato sia da ragioni umanitarie, che dall’opportunità di contribuire a far de-escalare il conflitto.
Il secondo, ben distinto, riguarda invece l’avvio di un serio processo negoziale tra Madrid e Barcellona che possa riportare il dibattito su un binario politico, verso una soluzione condivisa che sia un referendum negoziato od una moratoria concordata sulla questione dell’indipendenza, in cambio di una riconfigurazione dell’assetto spagnolo in senso confederale e multinazionale.
E’ chiaro, infatti, che la risoluzione del problema dei “presos politics”, per quanto urgente e simbolica, non può essere un surrogato della questione di merito politico posta dall’indipendentismo catalano. I detenuti sono i primi a rifiutare la prospettiva di essere usati dal governo spagnolo come “moneta di scambio” per far “rientrare” le richieste politiche catalane. Chiunque legasse la liberazione di Junqueras e degli altri ad un atteggiamento più conciliante e remissivo del governo catalano attuale, avallerebbe l’utilizzo da parte di Madrid dei detenuti come “ostaggi”.
Come bene ha compreso Carles Puigdemont, la causa catalana deve provare a trovare sponde a livello internazionale. Ragionevolmente non dovrà escludere nessuna interlocuzione, nell’ottica di diffondere il più possibile la conoscenza e la comprensione del problema catalano, tanto nella politica europea mainstream, per quanto apatica e spesso selettivamente miope, quanto in quelle aree politiche e culturali che oggi maggiormente denunciano i limiti e le ipocrisie dell’Unione Europea così come la conosciamo oggi.
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