TheBottomup.it 26.09.2017
Domenica 1 ottobre i cittadini catalani saranno chiamati a rispondere ad un quesito referendario riguardante l’autonomia della regione. In questo articolo, un gruppo di ricercatori catalani, coinvolti da Giacomo Bianchi, ci spiega il suo punto di vista, politico e storico, sulla questione.
La Catalogna e la Spagna si trovano ad affrontare una crisi costituzionale paragonabile a quella già vista durante il periodo della Transizione. Dopo 40 anni sotto la dittatura del generale Franco, iniziata con il colpo di stato fascista del 1936 e la vittoria militare nella guerra civile (1936-1939), la transizione verso la monarchia parlamentare nel 1978 ha significato il recupero delle libertà democratiche. Per i catalani in particolare, la libertà passava dal ripristino dell’autonomia politica, la Generalitat della Catalogna, un’istituzione abolita da Franco nel 1939. Nonostante il presidente democraticamente eletto della Catalogna, Lluís Companys, fosse stato catturato a La Baule-les-Pins (Francia) e fucilato nel 1940 a Barcellona, le istituzioni catalane sono perdurate durante l’esilio. Nel 1977 il presidente Josep Tarradellas, scelto tra i deputati catalani esiliati in Messico nel 1954, tornò in Catalogna per recuperare il Governo precedentemente perduto.
Durante questi 40 anni, la Catalogna ha sviluppato il proprio potere politico all’interno del quadro territoriale spagnolo. I catalani votarono massicciamente a favore della Costituzione del 1978 nella speranza di ripristinare la democrazia, modernizzare le istituzioni e ottenere il riconoscimento di una Spagna che, a differenza della maggior parte degli spagnoli, concepiscono come diversa e plurale in termini nazionali. In questo, la memoria della dittatura è ancora importante. La lingua e la cultura catalane, così come le iniziative politiche per ripristinare l’autogoverno, erano state vietate sotto il regime autoritario, e il recupero della Generalitat significava anche la costruzione di una Spagna dove la Catalogna potesse sentirsi “a proprio agio” e libera.
La Costituzione della discordia
Attualmente, però, la Costituzione spagnola è diventata un freno alle aspirazioni di un popolo, quello catalano, che in gran parte non si sente più rappresentato da quell’accordo costituzionale del 1978. Dal 2006 la Catalogna ha cercato di migliorare la sua autonomia politica e il suo peso nelle decisioni dello Stato Centrale spagnolo senza alcun successo. Una nazione, come quella catalana, che rappresenta il 16% della popolazione spagnola, il 20% del PIL e il 25% delle esportazioni, ha dovuto rassegnarsi a restare una minoranza.
Le debolezze istituzionali della Costituzione spagnola hanno dimostrato di essere organizzate a detrimento degli interessi catalani: il Senato rappresenta le province e non le comunità autonome (come la Generalitat), la Corte Costituzionale è un riflesso della mentalità unitaria dei grandi partiti spagnoli (popolari e socialisti su tutti) e le decisioni del governo spagnolo hanno favorito una lettura centralista invece che federalista dal testo costituzionale. Inoltre, a differenza dell’Italia, il regionalismo spagnolo si è tradotto in una uniformazione dell’autonomia in diciassette unità autonome uguali (con l’eccezione dei Paesi Baschi e Navarra in materia fiscale). In questo contesto, avere autonomia speciale, come l’Alto Adige, la Sardegna o la Valle d’Aosta, è visto come un privilegio invece che come un diritto.
Seguendo questo obiettivo la Catalogna riformò la propria legge, lo statuto di autonomia.
L’ambizioso testo, scritto dal Parlamento della Catalogna e approvato con il 90% dei voti a favore nel 2005, incontrò molti ostacoli. In primo luogo, durante il passaggio al Congresso dei Deputati spagnolo, molti degli articoli più audaci della legge furono cassati. Nonostante tutto, lo statuto finale è stato ratificato tramite referendum dai cittadini della Catalogna nel 2006. In secondo luogo, durante il processo e la negoziazione del testo nel Congresso dei Deputati, il partito conservatore (PP) ha raccolto più di 4 milioni di firme per organizzare un referendum di Stato (non previsto dal processo della riforma statutaria) sul testo proposto dal Parlamento catalano. Diverse comunità autonome e il proprio difensore civico hanno fatto ricorso nei confronti del Testo alla Corte Costituzionale. Infine, nel 2010 la Corte ha dichiarato incostituzionali gli elementi più rilevanti del testo giuridico: essere riconosciuti come nazione, avere un’autonomia finanziaria simile a quella dei Paesi Baschi, rendere più efficiente l’autonomia giudiziaria (ad oggi completamente centralizzata) e partecipare all’agenda degli organi centrali dello Stato, come succede per i Cantoni svizzeri o per gli Stati Uniti attraverso il Senato.
Dopo la bocciatura della riforma
Il rifiuto di questo progetto segna un punto di svolta nella politica catalana. Il sostegno all’indipendenza, che storicamente era rimasto intorno al 15%, è cresciuto esponenzialmente fino a diventare la prima preferenza territoriale dei catalani. Parallelamente, i sondaggi ci mostrano che in questo momento tra il 70% e l’80% dei catalani concordano nell’indire un referendum d’indipendenza per risolvere questo dilemma, ed è in questo senso che le prime richieste da parte del Governo catalano partono dalla volontà popolare.
Durante la legislatura 2012-2015, il Parlamento e il Governo catalano hanno espresso per più di quindici volte al Governo centrale la necessità di trovare un modo legale per tenere una consultazione sul futuro politico della Catalogna. Tuttavia il governo di Mariano Rajoy (PP), con il sostegno dell’opposizione socialista, così come quello della Corte Costituzionale, non ne hanno voluto sapere. In questo contesto, il Governo catalano, guidato da Artur Mas, ha sostenuto la società civile per organizzare una consultazione il 9 novembre 2014, in cui hanno partecipato più di 2,3 milioni di catalani (il 40% della popolazione censita). In seguito, diversi membri del Governo e il Presidente sono stati multati, condannati e interdetti dai pubblici uffici.
Una grande maggioranza parlamentare a Madrid, guidata da PP e PSOE, sostiene che la Costituzione non consente lo svolgimento di un referendum per l’indipendenza della Catalogna, posizione condivisa anche dai giudici della Corte Costituzionale. Tuttavia, molti costituzionalisti hanno sottolineato che, se ci fosse una volontà politica, esisterebbero diversi canali legali per esaudire questa richiesta. L’articolo 92, che permette al Governo spagnolo di autorizzare una consultazione su questioni di particolare importanza, e l’articolo 150.2, che permette al Governo di trasferire i poteri alle regioni, sono delle possibilità molto più che reali. Attualmente, nel panorama politico spagnolo soltanto Podemos (in coalizione con Sinistra Unita e altre formazioni regionali) sta cercando di tutelare la possibilità di un referendum in Catalogna come una vera e propria opzione, ma i numeri in parlamento della formazione di Pablo Iglesias sono nettamente insufficienti per essere determinanti.
Un’immagine aerea di una manifestazione a favore del referendum.
Il referendum del 2017
Davanti a questa situazione il Governo catalano, con l’appoggio del Parlamento (in cui i partiti indipendentisti hanno conquistato il 47,8% dei voti e la maggioranza assoluta dei membri), ha deciso di organizzare, unilateralmente, un referendum per il prossimo 1 ottobre. Non c’è bisogno di dire che questa iniziativa è stata considerata incostituzionale dal Governo spagnolo. Infatti, nel 2015 lo stesso Governo di Mariano Rajoy ha promosso una riforma legislativa che rafforzava i poteri della Corte Costituzionale a tal punto da diventare un organo legislativo con potere non solo consultivo, ma anche vincolante. Tale riforma, criticata anche dalla Commissione di Venezia, è diventata uno strumento utile per il Governo di Madrid, in quanto consente alla Corte di perseguire le violazioni delle proprie sentenze. La guerra giuridica è continuata con l’impugnazione e sospensione da parte di questa Corte delle leggi catalane in merito al referendum e alla successiva, eventuale, indipendenza.
Il Governo spagnolo è dunque intervenuto con un’operazione giudiziaria, ma anche di polizia visti gli arresti di diversi membri del Governo catalano, per impedire lo svolgimento del referendum. Si sono verificate di una sospensione de facto dell’autonomia finanziaria, aggravata dalla presa delle redini dal controllo della polizia catalana, i Mossos d’Esquadra.
Il Primo Ministro Mariano Rajoy e il Re Felipe VI hanno chiesto ai catalani di non partecipare al referendum. Ma i sondaggi fanno presagire un’altra verità: prevedono, infatti, una partecipazione superiore al 60%. Inoltre, la mobilitazione permanente e intensa nelle strade, e soprattutto la determinazione del Governo catalano, guidato da Carles Puigdemont, suggeriscono che i catalani andranno a votare il prossimo 1 ° ottobre.
È ovviamente ancora presto per poter fare un’analisi definitiva di quello che sta vivendo ora la Catalogna, ma è impossibile far finta di non vedere che il Governo spagnolo si trova in perenne contrasto con le altre democrazie presenti sul suo territorio. Canada e Regno Unito, giusto per fare due esempi, hanno potuto accogliere legittimamente richieste politiche molto simili a quelle catalane, attraverso gli strumenti che la democrazia e la legge predispongono. L’atteggiamento del Governo spagnolo, invece, ha trasformato le richieste catalane in un confronto tra la legittimità democratica e una legalità spagnola sempre meno legittima in Catalogna.
Gli autori
– Marc Guinjoan: postdoctoral fellow al Dipartimento di Scienza Politica e Diritto Pubblico presso l’Universitat Autònoma de Barcelona, attualmente impegnato in un gruppo di ricerca su democrazia, elezioni e cittadinanza.
– Toni Rodon: Postdoctoral researcher presso la London School of Economics e Assistant Professor all’Open University of Catalonia.
– Marc Sanjaume-Calvet: Ricercatore presso l’Institut d’Estudis de l’Autogovern (Governo Catalano).
Cosa sta succedendo in Catalogna?
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