La questione catalana è una questione politica europea

di Alessandro Giberti            12.09.2017    24ilmagazine.ilsole24ore.com
Lo scontro tra Madrid e Barcelona è al suo culmine: i catalani vanno avanti verso il referendum del 1° ottobre mentre Madrid promette che la consulta «non si celebrerà». All’orizzonte un conflitto ancora più fosco, dove tutto è possibile, che fa sorgere più di qualche domanda
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Le forze politiche dormienti di Madrid si sono accorte ieri l’altro che la Catalunya vuole decidere se dividersi dal resto di Spagna.
Dopo l’approvazione ufficiale per parte catalana del referendum del 1° ottobre prossimo (1-O) e l’immediata sua sospensione da parte del tribunale Costituzionale di Madrid, sono arrivate le denunce dalla Procura generale per il presidente della Generalitat de Catalunya Carles Puigdemont e tutti i membri del suo Governo e per la presidente del Parlamento catalano Carme Forcadell. I catalani hanno tirato dritto approvando la “Ley de Transitorietad”, con la quale si fissano i termini della cosiddetta “disconnessione” della Catalunya dal Regno di Spagna e le basi della successiva fondazione della Repubblica catalana in caso di vittoria del sì al referendum. In mezzo abbiamo visto tentativi di sequestri da parte della Guardia Civil spagnola di urne e schede elettorali dell’1-O con irruzioni in tipografie e stamperie considerate “vicine” al Governo catalano e la solita imponente Diada di ieri, che sarebbe la festa nazionale catalana, cioè di tutti i catalani, ma che è ormai interamente consacrata alle ragioni del referendum.
Lasciando perdere la cronaca – al momento non si sa nemmeno se si voterà, figurarsi con quali garanzie e in quale clima – quel che importa è capire se quello che sta succedendo tra Madrid e Barcelona sia ancora circoscrivibile in termini di scontro politico locale o se sia legittimo chiedersi se questa vicenda catalana non sia un po’ più larga, ovvero se non sia una questione che intacchi i principi democratici generali, ovvero se non sia una questione politica europea.
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Dovessimo trattare la vicenda dal primo punto di vista, non ci sarebbero dubbi: forzando la mano, Barcelona sta minacciando l’ordine costituzionale di un Paese membro dell’Unione europea. Di conseguenza le ragioni di Madrid prevarrebbero su quelle catalane e lo Stato spagnolo sarebbe pienamente autorizzato a contrastare, da ogni punto di vista, le minacce al proprio ordine costituito.
Però il milione di persone scese in piazza ieri a Barcelona, per la sesta Diada multitudinaria consecutiva (fino al 2011 a celebrare la giornata della Catalunya erano sì e no 15mila persone), non sono figlie del caso. Non credo si possa più fingere che piazza e Governo non siano originate dal medesimo movimento politico-ideale, maggioritario in Catalunya, che chiede a gran voce di essere ascoltato: quello del “derecho a decidir”, cioè del voto.
Il problema qui è far calare il costituzionalismo sull’80 per cento dei catalani favorevoli al voto – queste le stime – come fosse l’ultima istanza di una traiettoria che ha viste esplorate tutte le altre opzioni possibili. Ma non è così: ci sono stati anni di sviluppi politico-elettorali e infinite possibilità di mettere in marcia risposte che avrebbero attutito il colpo e magari anche indirizzato il procés fuori dal vicolo cieco referendario, ma si è deciso di non fare nulla che non fosse frustrare le aspirazioni di un’intera comunità politica, fino farla diventare maggioritaria.
Ora le forze politiche dormienti di Madrid si sono messe a parlare nientemeno che di “colpo di Stato”. Un colpo di Stato passato attraverso elezioni “autonomiche” (regionali), elezioni politiche nazionali e un referendum ancorché fake. Siamo di fronte a una nuova fattispecie dottrinale: il colpo di Stato a suon di voti.
Solo pochi giorni fa, Mariano Rajoy ha dichiarato, testuale, che la «Spagna è un Paese che vive in pace da più di 40 anni». Non stupisce quindi che la questione catalana sia la peggiore gestione di un problema interno che si ricordi da quella di Eta, esattamente nei supposti quarant’anni di pace. Con «nessuno poteva immaginare di assistere a uno spettacolo così antidemocratico», vale a dire l’approvazione in un Parlamento – in un Parlamento! – di una legge ancorché contraria alla Costituzione e la successiva puntualizzazione che «in Spagna si può essere indipendentisti o qualsiasi altra cosa, quel che non si può fare è conseguirlo», Rajoy ha ridotto in un colpo solo popolo sovrano e principio democratico a forme di passatempi non cogenti. La supposta “perversione antidemocratica” del Parlamento di Catalunya, nel quale a dare «grande prova di democrazia» è una minoranza che abbandona l’emiciclo è l’ultimo ribaltamento della realtà operata da Madrid in tutta la storia recente della questione catalana. L’Aventino non può diventare il metro di giudizio ufficiale dello stato di salute di una democrazia parlamentare. Se ogni qual volta una minoranza – e la minoranza happens all the time – prende ed esce dall’aula parliamo di deficit di democrazia che ce ne facciamo del fondamento della democrazia rappresentativa e cioè del principio di maggioranza?
La risposta all’80 per cento dei catalani che chiede di votare non può più essere esclusivamente giuridica: deve essere politica. Siamo arrivati troppo in là perché si chiuda il becco a un’intera comunità brandendo solo la Carta fondamentale. Non perché non si possa, ovvio che si possa, ma perché non funziona. E non funziona perché le democrazie non funzionano contro la volontà maggioritaria di una comunità politica.
Pur non condividendo le forzature di leggi, norme e regolamenti, e riconoscendo che l’inflazionatissimo “principio di auto-determinazione dei popoli” poco c’entri in questa questione, non dimentichiamoci che siamo europei, siamo occidentali e siamo democratici. Da questa parte di mondo facciamo parlare le persone. Se l’80 per cento di un popolo vuole parlare, deve poterlo fare. Se l’idea è quella di mettere a tacere 7 milioni di persone tre settimane prima del momento culminante di una vicenda politica lunga un decennio semplicemente perché si è deciso di ignorarne l’esistenza fino all’altro ieri non si può in tutta onestà fingere che la cosa appartenga alla normale dialettica democratica (lasciando perdere in questa sede le ragioni storiche: la Generalitat è un’istituzione politica del XIV secolo, precedente a qualsiasi idea di comunità politica spagnola).
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Infine, davanti a «il referendum non si celebrerà» e «la democrazia risponderà con fermezza» ripetendo più volte «senza rinunciare a nulla», qual è il sottotesto democratico delle parole di Rajoy? Fino a che punto possiamo spingere l’immaginazione? Se i dirigenti politici catalani venissero condannati (già successo), inabilitati (già successo) e magari anche incarcerati (ancora no, ma è tecnicamente possibile) che cosa dovremmo fare come europei? L’esistenza di prigionieri politici in un Paese membro è conforme ai principi della Ue? È più grave la persecuzione politica o il mutamento democratico di un ordinamento? La legge sta sopra il popolo o emana dal popolo? Siamo sicuri che la questione catalana sia una questione meramente spagnola?
 

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