“La Catalogna terrà quest’anno un referendum vincolante per decidere se diventare uno stato indipendente”, ha detto il presidente dell’istituzione di autogoverno della Catalogna (Generalitat) Carles Puigdemont nella sala di conferenze più grande del Parlamento europeo a Bruxelles
Con accanto il vicepresidente del Governo della Catalogna Oriol Junqueras ed il consigliere di Affari Esteri Raül Romeva, Puigdemont ha parlato in catalano, francese e inglese a una sala gremita, tra cui una quarantina di deputati europei di svariati partiti e loro assistenti ed un centinaio di funzionari di diverse ambasciate.
Ecco il testo del discorso di Puigdemont, tenuto il 24 gennaio 2017:
Desidero cominciare il mio intervento in catalano, la lingua propria della Catalogna, ufficiale con il castigliano e l’aranese, che è la lingua occitana propria del Vall d’Aran [territorio facente parte della Catalogna]. Voglio farlo congratulandomi con il nuovo presidente del Parlamento europeo, l’onorevole Antonio Tajani, eletto la settimana scorsa, e desiderandogli buona fortuna e molti successi in questo nuovo ruolo affidatogli in nome di tutti gli europei. Speriamo anche, anzi spero, che dia compimento all’impegno preso per iscritto con la maggioranza degli eurodeputati del nostro paese di far sì che il catalano, la lingua propria della Catalogna, possa esser anche lingua ufficiale nel Parlamento europeo.
A settembre scorso, durante una seduta del Parlamento della Catalogna alla quale ho preso parte per un voto di fiducia che avevo richiesto, ho reso esplicito quello che era già un impegno chiaro del mio governo e della maggioranza politica che lo sostiene in Parlamento: nel 2017, cioè quest’anno, la Catalogna terrà un referendum vincolante per decidere se diventare uno stato indipendente. Con il vicepresidente ed il consigliere Romeva sono oggi a Bruxelles, capitale dell’Europa, nella sede dell’istituzione dove viene esercitata la rappresentanza democratica dei cittadini dell’Unione Europea e, dunque, anche dei cittadini della Catalogna, per riaffermare il nostro impegno di convocare questo referendum, che è il miglior strumento democratico possibile per conoscer la decisione del nostro popolo.
È probabile che alcuni di voi, forse molti, si chiedano come siamo arrivati a questo punto, per quale ragione una buona parte dei catalani non voglia più far parte della Spagna. La riposta o le risposte sono chiare. Da una parte, perché la Catalogna è una nazione, una vecchia nazione europea con una identità, una cultura e una lingua forti, una nazione che ha avuto istituzioni proprie da secoli (io sono il centotrentesimo presidente di una istituzione le cui origini risalgono al 1359), una nazione che sempre ha voluto essere riconosciuta. Tutto questo, tuttavia, non spiega da solo tutto quel che è accaduto in Catalogna sul piano politico negli ultimi anni.
È evidente, d’altra parte, che a giugno del 2010, il Tribunale Costituzionale spagnolo ha demolito lo Statuto di Autonomia della Catalogna, che i catalani avevamo approvato in un referendum quattro anni prima, dopo un accordo previo con le istituzioni spagnole che aveva comportato sacrifici e rinunce. Quell’accordo minimale voleva essere un accordo politico bilaterale tra la Catalogna e la Spagna con il perimetro dell’autogoverno catalano tracciato, era qualcosa che ci era stato richiesto più volte; lì era messo nero su bianco, in un accordo, lo ripeto, pattuito tra la camera di rappresentanza catalana e quella spagnola e votato in un referendum. La maggioranza degli aspetti fondamentali di quell’accordo fu annullata da un tribunale che. idealmente, dovrebbe essere l’arbitro neutrale dei contenziosi costituzionali nello Stato spagnolo,ma che in realtà è un organo politicizzato e di parte. Un Tribunale Costituzionale che oggi è presieduto da un ex militante del Partito Popolare (PP) e che, con il trascorrere degli anni, è andato sbilanciandosi sempre di piè verso le tesi del PP ed è diventato alla fine un attore che gioca in modo spudorato a favore di una delle parti.
La sentenza del 2010 ebbe conseguenze di vasta portata. significò un prima e un dopo per molti catalani. Fu la fine di una tappa e la constatazione del bisogno imperioso di intraprendere una nuova strada. I breve, l’incastro della Catalogna nella Spagna, vecchia aspirazione del catalanismo politico, era impossibile. Dunque, c’erano solo due opzioni: rinunciare a ciò che eravamo e rimanere definitivamente diluiti nella Spagna come regione senza personalità propria né capacità di disporre del potere politico, oppure cominciare una uova tappa come nuovo stato nel quadro dell’Unione Europea per garantire il progresso ed il benessere a tutti i cittadini. Quella sentenza rappresentò senza alcun dubbio per molti catalani la rottura delle ragioni che avevano spiegato l’unione con la Spagna. Da allora mole altre rotture si sono accumulate con il trascorrere del tempo.
Vale la pena di sottolineare che, negli ultimi cento anni a dir poco e in special modo da quanto la Spagna uscì dal regime di Franco, i partiti catalanisti nel loro largo spettro hanno avuto sempre un atteggiamento e un ruolo di responsabilità negli affari fondamentali per lo Stato spagnolo e anche per l’insieme dell’Europa. Sempre eravamo stati accanto al Governo spagnolo, perfino (lo sottolineo con particolare enfasi) quando il principale partito spagnolo di opposizione non c’era. Nell’ingresso della Spagna alla Comunità Economica Europea, durante l’integrazione nella moneta unica, in momenti in cui la stabilità politica spagnola vacillava, nella lotta al terrorismo, durante l’ultima crisi economica, quando occorrevano decisioni dure per evitare il salvataggio economico della Spagna… È evidente che lo si faceva per responsabilità e per senso dello stato, un senso, insisto, molto più alto di quello del partito che allora era all’opposizione. Ebbene, è doloroso che, dopo quasi quarant’anni, la risposta dello Stato alla Catalogna dopo questo contributo sia stato un trattamento così deludente e mortificante.
Dopo la durissima sentenza del 2010 sullo statuto della Catalogna, dall’anno 2012 ogni 11 settembre —Giornata Nazionale della Catalogna — piè di un milione e mezzo di persone hanno manifestato per strada per chiedere dignità, capacità decisoria e, alla fin fine, per poter decidere il loro futuro alle urne. Parliamo di cifre molto importanti: circa un milione e mezzo di persone in un paese di 7,5 milioni di abitanti. E non è accaduto una volta, bensì cinque. In nessun luogo dell’Europa si è vista una manifestazione paragonabile a quelle e, ancor meno, che si sia ripetuta anno dopo anno.
Questa mobilitazione non sarebbe stata sufficiente né consistente a sufficienza se non avesse avuto anche l’avallo delle urne. Questo mandato democratico esiste ed è quello che adesso stiamo eseguendo. Il 27 settembre 2015, come ricordava il consigliere Romeva, con la più alta partecipazione nel tempo alle elezioni per il Parlamento della Catalogna (quasi il 75 %), le forze favorevoli all’indipendenza ottennero 72 dei 135 seggi (con il 48 % dei voti), tre in più della maggioranza assoluta; i contrari all’indipendenza ne ottennero 52 (con il 39 % dei voti); gli altri 11 andarono a un partito che non si era dichiarato né favorevole né contrario all’indipendenza, ma favorevole ad un referendum. Vale la pena sottolineare che nel 2010 in Parlamento c’erano soltanto 14 deputati presentatisi con un programma indipendentista. Nel 2015 furono 72. Da 14 a 72 soltanto in cinque anni. Credo che questa crescita sostanziale in quel breve periodo meriterebbe che la Spagna si chiedesse che cosa sia successa in Catalogna durante quegli anni, che cosa abbia fatto male perché il Parlamento, espressione di ciò che pensano e desiderano i cittadini, sia cambiato in modo così significativo in un periodo cosi breve di tempo. Pare molto logico farsi questa domanda. Anche l’Europa dovrebbe farsi la stessa domanda — o farla alla Spagna.
Come indica, dunque, il risultato delle elezioni del 2015 c’è in Catalogna una maggioranza di cittadini desiderosi di costruire un nuovo stato che dia risposta ai bisogni e alle ambizioni di futuro; il Parlamento ed il Governo hanno l’incarico chiaro e inequivocabile di lavorare per renderlo possibile. Per tutto questo tempo abbiamo svolto e seguitiamo a svolgere il lavoro occorrente per poter diventare uno stato: ciò comporta preparare le strutture di stato e la legislazione necessaria per poter agire come paese indipendente integrato nell’Unione Europea e nella comunità internazionale fin dal primo giorno. Il nostro proposito è che il transito avvenga in maniera ordinata, con certezza giuridica e con le massime garanzie. La nostra è una rivoluzione tranquilla, che vuole trasmettere fiducia e che si costruisce in ogni momento con passi in condizioni ferme, sicuri.
Nell’ambito dell’Unione Europea, ciò significa un processo di allargamento interno senza discontinuità, in particolare riguardo all’Unione Economica e Monetaria e al funzionamento del Mercato Interno e delle libertà ad essi associate.
È evidente che questo processo richiederà una convalida democratica della cittadinanza che gli dia un carattere definitivo. In Catalogna si conviene con un enorme consenso che il miglior modo di ottenere questo benestare è un referendum vincolante. I dati demoscopici pubblicati regolarmente indicano in modo invariabile che circa l’80% dei catalani, a prescindere dalla propria opzione di voto, è favorevole alla celebrazione di un referendum. Occorre in più sottolineare che 83 dei 135 deputati eletti al Parlamento catalano nel 2015 sono favorevoli alla convocazione di questo referendum, ossia, che il 61,5% della camera è favorevole alla consultazione, a fronte di un 38,5% contrario.
Non è nuova la richiesta di un referendum per determinare se la Catalogna sceglie di diventare uno stato o meno. E’ stata una domanda costante del nostro paese negli ultimi anni. Lo abbiamo chiesto ripetutamente, fu richiesto in modo solenne nel Parlamento spagnolo ad aprile del 2014. Non si presero neanche la briga di studiare la richiesta, che era stata illustrata da una delegazione del Parlamento della Catalogna. La scartarono in poche ore, senza neanche dichiararla ammissibile.
Abbiamo affermato e affermiamo che il referendum è agibile dal punto di vista giuridico e che il solo problema è la mancanza di volontà politica. In passato, un gruppo di esperti ha illustrato fino a cinque vie legali per tenere una consultazione concordata con lo Stato spagnolo.
Siamo convinti che il referendum sia il meccanismo più chiaro, più potente e più accettato sul piano internazionale per misurare la volontà di un popolo di fronte a una decisione non banale, ma storica. Crediamo che votare sia il miglior modo di sapere quale progetto goda di più appoggi (la permanenza in Spagna o la creazione di uno stato). Davanti al conflitto politico —pacifico— tra la Catalogna e la Spagna, la cosa migliore è che i cittadini della Catalogna prendano posizione per poter conoscere con precisione dove si trovi la maggioranza e dove le minoranze. Questo è il modo democratico di affrontare le divergenze. Un meccanismo, a dire il vero, che non va intravvedere niente di nuovo, ma semplicemente corrisponde a quello che la Scozia poté fare in santa pace due anni e mezzo fa e che forse rifarà in un futuro e a quello che anche il Québec fece a suo tempo.
In questo contesto, conviene sottolineare che soltanto può avere paura di votare chi abbia paura di conoscere il risultato e non sia disposto ad accettarlo. In questo senso, è significativo che, mentre i favorevoli all’indipendenza chiediamo che tutti possano votare ed esprimere la propria posizione, lo Stato spagnolo non patteggi per il no all’indipendenza, ma sostenga che non si può votare e che neanche si può parlare del caso. Il contrasto è stridente.
Bisogna puntualizzare che vogliamo un referendum concordato con il Governo spagnolo perché questa è l’opzione più plausibile per tutti. La nostra offerta di dialogo e di ricerca del consenso rimarrà in piedi fino all’ultimo giorno. Siamo disposti a parlare di tutto: formulazione della domanda, data, requisiti di partecipazione, percentuale necessaria per l’opzione vincente… Siamo seduti al tavolo dei negoziati e non ci alzeremo fino all’ultimo giorno. L’offerta di dialogo è permanente. Cionondimeno, vogliamo anche chiarire che non ci fermeremo se il Governo spagnolo rimarrà ostinato nel suo “no” a tutto e rifiuterà ogni trattativa.
Come annunciai davanti al Parlamento catalano lo scorso settembre, entro settembre del 2017, la Catalogna celebrerà un referendum vincolante sulla propria indipendenza. Se sarà concordato, molto meglio, così lo preferiamo. Ma annunciamo che, se questo non sarà possibile, l’organizzeremo lo stesso. Non è possibile che l’intransigenza abbia la meglio. Quest’anno, i cittadini della Catalogna devono avere l’opportunità di decidere definitivamente del proprio futuro. Siamo proprio coscienti che, come in ogni referendum, saranno i cittadini a rendere valido il referendum della Catalogna. Sono i cittadini ad autorizzarlo con la loro partecipazione. Se i cittadini riescono a sentirlo come proprio, il referendum e il risultato sono validi.
Voglio insistere sul fatto che il Governo spagnolo, fino a oggi, si rifiuta tassativamente di avviare qualsiasi trattativa sul referendum. E un “no a tutto”, è un “no” perfino ad ascoltare. Ciò è grave e irresponsabile.
Ma lo è ancor di più che le uniche decisioni che hanno preso siano state la persecuzione giudiziaria di questo processo di indipendenza, giudizializzando la politica tramite una parte del potere giudiziario e il Tribunale Costituzionale, con chiaro attentato alla separazione dei poteri e allontanandosi sempre più dagli standard di qualità democratica dell’Unione Europea. Una persecuzione in tutta regola di color che non la pensano come loro, per dare loro una lezione a darla a tutti. Fra appena due settimane, l’ex presidente del Governo della Catalogna, l’onorevole Artur Mas, e due consigliere del suo Governo, le onorevoli Joana Ortega e Irene Rigau, saranno sotto processo per aver reso possibile il 9 novembre 2014 una consultazione non vincolante per chiedere agli elettori se la Catalogna doveva diventare uno stato indipendente. Dietro querela del procuratore generale dello Stato, tutti e tre vanno incontro a pene tra i 10 e i 9 anni di interdizione dai pubblici uffici. Un altro consigliere del Governo di Artur Mas, l’onorevole Francesc Homs, sarà giudicato tra poco con le stesse accuse e, anch’egli, va incontro a una pesante pena di interdizione. Ecco, tribunali in azione contro chi ha predisposto le urne e ha reso possibile a oltre 2,3 milioni di catalani di esprimere la propria opinione. Una giornata che riteniamo esemplare mostra in modo chiaro come si fanno le cose in Catalogna, terra pienamente civile della quale andiamo fieri. Per sfortuna, lo scandalo non finisce qui. Anche la presidente del Parlamento della Catalogna, Carme Forcadell, potrebbe finire sotto processo per aver permesso, durante una seduta plenaria del Parlamento, che venissero dibattute e votate le conclusioni di una commissione parlamentare di studio. Un crimine gravissimo! È evidente il grande divario esistente tra la nozione di democrazia convenzionale, cioè, quella omologabile alle migliori democrazie del mondo e all’Unione Europea in particolare, e la nozione di democrazia che lo Stato spagnolo dimostra di avere. Giudicate voi se l’atteggiamento del Governo spagnolo è normale, accettabile e proprio di uno stato serio e veramente democratico. Voglio evidenziare che in questa faccenda non è in gioco l’indipendenza, ma la democrazia, il che non incide soltanto sui sostenitori di uno stato proprio, ma su tutti i cittadini che credono, che crediamo, nella libertà. Si tratta, dunque, e voglio dirlo qui in modo chiaro, di un problema europeo. E l’Europa non potrà guardare da un’altra parte. L’Europa deve essere parte della soluzione. Per coerenza con i valori e i principi democratici ai quali si ispira, per pragmatismo e, come sempre ha fatto di fronte ai cambiamenti geopolitici profondi, adattandosi, con dialogo politico prima e con incastro giuridico dopo.
Come dicevo prima, la rivendicazione del diritto a decidere liberamente il nostro futuro come paese nelle urne è molto trasversale e capillare in tutta la società catalana; ne è la prova il fatto che oltre 4.200 organizzazioni economiche, culturali, sociali e civiche del paese danno appoggio esplicito alla rivendicazione. In questo senso, con lo sprone del Governo, alla fine dell’anno scorso, un’ottantina di queste organizzazioni —le più rilevanti del paese-— e diversi rappresentanti istituzionali hanno costituito il Patto Nazionale per il Referendum. Uno degli accordi presi durante la riunione stabilisce di promuovere una campagna di adesioni alla richiesta di referendum, si a livello internazionale che a livello dello Stato spagnolo. Vogliamo poter spiegarci, vogliamo poter esporre le nostre ragioni e che esse vengano capite.
Per avviarmi alla conclusione, voglio rilevare che la proposta catalana di referendum è profondamente europeistica. In primo luogo, perché, se la Catalogna diventerà un nuovo stato, lo diventerà nella cornice dell’Unione Europea. I primi passi della Repubblica Catalana verranno mossi seguendo le regole del gioco dell’Unione Europea. Non immaginiamo altri scenari. Il catalanismo politico, fin dalle sue origini risalenti a otre 100 anni, ha l’europeismo tra i suoi valori fondanti. In effetti, la Catalogna nel suo insieme ha una chiara vocazione di appartenenza al progetto europeo perché se ne sente profondamente partecipe. E’ qui, in Europa, dove vogliamo stare, senza alcun dubbio. Non da 31 anni, con l’entrata della Spagna nella Comunità Economica Europea, ma da sempre. Storicamente, dai lontani tempi di Carlomagno, la Catalogna ha guardato sempre verso l’Europa e si è sentita identificata con un’idea di appartenenza comune.
Di recente, alcuni hanno deciso di uscire dall’Europa. È legittimo e dobbiamo accettarlo, ma noi non lo condividiamo. Potremmo dire che siamo proprio all’estremo opposto. In Catalogna siamo per più Europa, per incrementare questo progetto condiviso. Vale a dire, vogliamo esercitare appieno la nostra sovranità per poterla condividere con i nostri soci europei in quegli ambiti che ci rendano più forti collettivamente.
In secondo luogo, la proposta catalana di referendum è europeista perché si ricollega a uno dei principi fondamentali dell’Europa, la democrazia. L’Europa ha visto nelle ultime decadi come sorgevano nuovi stati. A differenza di altri casi non lontani nel tempo, la Catalogna aspira a raggiungere l’indipendenza in modo pacifico, civile, soltanto con “l’arma” della democrazia. Pone i cittadini come persone adulte e con discernimento che liberamente possono decidere il proprio futuro. Si tratta, in definitiva, di un processo d’avanguardia democratica che vuole essere esemplare e che si collega a quello che è e che deve essere il progetto europeo.
Per finire, voglio ribadire quello che ho annunciato all’inizio e lungo il mio intervento. Siate sicuri che quest’anno 2017 la Catalogna deciderà liberamente del proprio futuro tramite un referendum legittimo, legale, con tutte le garanzie democratiche, efficace e vincolante.
Di nuovo, tante grazie per la vostra assistenza e attenzione.
Carles Puigdemont i Casamajó
Presidente della Generalitat de Catalunya
traduzione: Àngels Fita, Jordi Minguell – ANC Itàlia
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