Dove va la Spagna ?

A rainbow is seen as a bird flies past a giant Spanish flag at Colon square in Madrid
L’accordo tra popolari e socialisti per la formazione di un nuovo governo Rajoy, i rapporti con l’UE, le rivendicazioni della Catalogna, il terrorismo basco, ISIS e i foreign fighters. Intervista all’analista politico catalano Marc Garafot i Monjó
di Rocco Bellantone per  Lookout news            28 novembre 2016
@RoccoBellantone
Da inizio novembre il leader del Partito Popolare Mariano Rajoy ha ripreso in mano le redini della Spagna. Il premier ha ottenuto la fiducia del parlamento grazie all’astensione della maggioranza del Partito Socialista (PSOE) che pur di favorire la formazione di un nuovo esecutivo ha deciso di non votargli contro. Quello che attende Rajoy non è un compito facile. Dopo dieci mesi di stallo politico, la Spagna segna alcuni dati economici in ripresa. Ma per ridare stabilità al Paese serve una riduzione del deficit, come richiesto dalla Commissione europea, il che significa trovare in parlamento i numeri per approvare in tempi stretti la legge finanziaria per il 2017. Questo ostacolo non è però l’unico che deve affrontare il nuovo governo. Pur essendo rimasta lontana dai riflettori internazionali negli ultimi trecento giorni, la Spagna resta infatti un Paese complesso, con tante questioni irrisolte al suo interno: dalle spinte indipendentiste della Catalogna alla gestione di ciò che resta del terrorismo basco, dall’aumento dei foreign fighters andati a combattere nelle terre del Califfato in Siria e Iraq al rischio di attentati e all’ambizione dell’ISIS di riconquistare un giorno Al Andalus, dove un tempo si estendevano i regni musulmani nella penisola iberica. Lookout News ha inquadrato il momento attraversato da questo Paese insieme all’analista politico catalano Marc Gafarot i Monjó.
Spain's acting PM Rajoy looks back as he leaves his seat after the investiture debate at the Parliament in Madrid
Fino a che punto il nuovo governo Rajoy potrà contare sul supporto del Partito Socialista?
Partiamo da un’analisi del momento attraversato dal Partito Socialista spagnolo. Il PSOE è sempre stato un partito di ispirazione leninista, centralista, gerarchico e verticale per quanto riguarda la sua organizzazione interna. Gli ultimi venti anni di storia del partito sono stati molto travagliati, e lo stesso vale per il Partito Popolare. Nel 1997 l’ex primo ministro socialista Felipe González Márquez, pur perdendo la leadership, ha mantenuto una forte influenza dentro il partito. E questo per il PSOE è stata una cosa nociva. Il ritorno al governo dei socialisti con José Luis Rodríguez Zapatero nel 2004 è avvenuto soprattutto per i demeriti del governo del Partito Popolare di José María Alfredo Aznar López, il quale perse la sua credibilità per aver provato a dare la colpa degli attentati di Madrid del 2004 (191 morti, ndr) all’ETA (Euskadi Ta Askatasuna, l’organizzazione terroristica basca, ndr) mentre tutti sapevano che l’attacco era stato di matrice islamista-radicale. Oggi il Partito Socialista vive una situazione di fragilità interna molto grande, con una separazione enorme tra la dirigenza del partito e la sua base elettorale. Hanno preso la decisione di astenersi nel voto di fiducia a Rajoy per facilitare la formazione di un nuovo governo. Dicono di aver fatto una scelta di responsabilità politica. Però è una scelta che si scontra con le accuse di corruzione che i socialisti per anni hanno lanciato contro il Partito Popolare. È pertanto inevitabile che Podemos prenda dei voti a sinistra ai socialisti. Il risultato è che oggi il PSOE c’è solo nel sud della Spagna. Nel resto del Paese dove in passato era molto forte – come in Catalogna, nei Paesi Baschi, a Madrid, Valencia – oggi è quasi irrilevante.
Oltre all’avanzata di Podemos, la crisi del bipolarismo destra-sinistra ha spinto pezzi di elettorato verso i movimenti indipendentisti o autonomisti di regioni come la Catalogna o i Paesi Baschi. Il governo come risponderà a queste rivendicazioni?
Per inquadrare la situazione in Catalogna, in particolare, occorre fare un passo indietro nella storia della Spagna. Dopo la fine del franchismo nel 1975, la conquista della democrazia è stata percepita da tantissima gente in Catalogna come il punto di inizio di nuove relazioni politiche tra la Catalogna e la Spagna. La Spagna è diventata un Paese democratico, moderno e si è unita all’Europa. Ma di pari passo non è stato portato avanti un processo per integrare la Catalogna in maniera soddisfacente all’interno dello Stato. Anche dopo il franchismo, la Spagna ha continuato a essere però uno Stato estremamente centralista, specie quando al governo c’è stata la destra autoritaria. Uno Stato di fronte al quale le rivendicazioni autonomiste che provenivano da diverse parti della Spagna, non solo dalla Catalogna, sono sempre state frustrate. Ciò ha fatto sì che moltissime persone che negli anni Ottanta e Novanta in Catalogna non erano indipendentiste, lo sono diventate negli anni seguenti perché delusi dai governi di destra o di sinistra che si sono avvicendati.
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Nonostante l’annullamento delle mozioni di secessione da parte della Corte costituzionale, il presidente della Catalogna Carles Puigdemont ha annunciato un nuovo referendum nel 2017. A cosa porterà questo muro contro muro con Madrid?
Il nuovo governo Rajoy confermerà il no alle richieste della Catalogna. Anche il Partito Socialista ha ormai abbandonato da tempo la sua storica visione federalista che aveva della Spagna. Pertanto, con il patto di governo tra popolari e socialisti non ci sono buone prospettive per il percorso indipendentista della Catalogna. Occorre però vedere quanto durerà questo nuovo esecutivo. Negli ultimi anni la Spagna si è “italianizzata” e la fragilità politica ha spesso prevalso su chi voleva l’unitarietà. A prescindere dalla sorte di questo governo, la maggioranza delle forze politiche catalane è convinta che l’unico modo per dare risposte alle richieste dei catalani è convocare un nuovo referendum in cui saranno i cittadini a decidere se rimanere dentro lo Stato spagnolo o creare una propria entità governativa fuori dalla Spagna ma dentro l’Unione Europea. Ciò che è certo è che se il risultato del referendum non dovesse essere considerato valido da Madrid, la Spagna continuerebbe ad avere un problema irrisolto al suo interno.
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Quando sarà il referendum?
Stando alle ultime dichiarazioni del presidente della Catalogna Puigdemont, il referendum dovrà essere in un periodo compreso tra giugno e settembre 2017. La Corte costituzionale spagnola, che possiede un potere politico dismisurato in un Paese democratico come la Spagna, può invalidarlo come ha già fatto. Se ciò dovesse accadere, in Catalogna si terranno nuove elezioni. E se alla maggioranza dovesse mantenersi il fronte indipendentista, il parlamento eletto dai catalani proclamerà l’indipendenza della Catalogna. Ciò causerà instabilità e tensioni con il governo centrale e più in generale con la politica nazionale spagnola. Ma la posta in palio è sempre più alta e arriverà il momento in cui la questione non potrà più essere gestita da Madrid per come è stato fatto finora. Fortunatamente non ci sono focolai di violenza. Ma il conflitto politico è vivo e al momento i canali di comunicazione tra il governo centrale e il governo catalano sono adesso praticamente inesistenti.
Che situazione c’è nei Paesi Baschi?
Nei Paesi Baschi c’è una situazione molto differente rispetto alla Catalogna. I Paesi Baschi hanno conosciuto il terrorismo dell’ETA (Euskadi Ta Askatasuna), in Catalogna invece non sono mai stati attivi gruppi terroristi. Oggi i Paesi Baschi possono godere di una totale autonomia fiscale ma non hanno un movimento indipendentista forte, non cercano l’indipendenza formale dalla Spagna come fa invece la Catalogna.
Il terrorismo basco non rappresenta più un problema per la Spagna?
Il governo centrale dice di aver vinto la guerra contro ETA. Lo scorso anno l’ex ministro dell’Interno spagnolo, Jorge Fernandez Diaz, per concedere il perdono agli ultimi membri dell’organizzazione aveva chiesto non solo che consegnassero le armi ma anche che riconoscessero di aver perso la guerra. Io credo che chi fa ancora parte oggi dell’ETA non accetterà di sottostare a queste condizioni. Ciò però non significa che essi rappresentino una minaccia per i Paesi Baschi e per la Spagna. ETA oggi è inesistente e la sua cupola è stata eliminata. Il vero problema adesso, così come accaduto in passato a Regno Unito e Italia, è capire come comportarsi con gli ex terroristi. Penso che al momento ETA sia una buona scusa che il governo centrale usa per frenare certe rivendicazioni dei Paesi Baschi.
La minaccia del terrorismo jihadista, invece, è reale? O la Spagna rischia meno di altri Stati europei?
Nel caso del Levante (zona geografica che corrisponde a Catalogna, Isole Baleari, Comunità Valenciana, regione di Murcia e zona orientale della Castilla-La Mancha e Aragona, ndr) fonti della sicurezza della regione dicono che il 25% dei musulmani che risiedono in quest’area tendono al radicalismo. La frontiera con il Marocco è sicuramente un punto sensibile per la sicurezza nazionale perché da qui possono entrare jihadisti. La polizia spagnola ha fermato diversi attentati nell’ultimo anno e centinaia di spagnoli sono andati in Siria a combattere per il jihad. C’è forte preoccupazione. Non dimentichiamo che per lo Stato Islamico Al Andalus, vale a dire parte della penisola iberica, fa parte del progetto di ricostituzione del Grande Califfato. Per ISIS, dunque, la Spagna è un obiettivo primario.

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